La Dea Fortuna di Ferzan Özpetek e la “ronde” dei sentimenti

La prima scena è una soggettiva, anonima, che, in piano sequenza, si muove nelle stanze di una dimora, non precisata (si capirà verso la fine del film, quando le immagini tornano a quel luogo), ampia, buia, affrescata con dipinti macabri, colma di oggetti, statue, tra cui un crocefisso, libri. La macchina da presa s’insinua illuminando come fosse una torcia quell’ambiente antico e per nulla rassicurante, sottolineandone il mistero con la complicità della colonna sonora. Potrebbe essere l’incipit perfetto per un horror, che si conclude davanti a una pesante porta chiusa dietro la quale una bambina urla alla madre di essere liberata. La seconda scena è, nella parte iniziale, un’altra soggettiva, ma di tipo ben diverso. Una folla di personaggi, radunata su un terrazzo per festeggiare il matrimonio di una coppia gay, è filmata con il cellulare da uno dei partecipanti. Immagini mosse, che si posano su volti e dettagli di cibo. Una situazione piena d’allegria, che contrasta con la scena precedente. Ma dietro quell’allegria si intuiscono disagi, poi via via espressi dalla narrazione. A riprendere quei momenti è Arturo (Stefano Accorsi), la cui vita è, in apparenza, felicemente condivisa da molti anni con il compagno Alessandro (Edoardo Leo). Al punto di vista di Arturo, da un certo momento si sostituisce quello in terza persona che filma e racconta i fatti e coincide quasi del tutto con l’arrivo alla festa, insieme ai due figli piccoli, di Annamaria (Jasmine Trinca), che lavora nel santuario di Palestrina dedicato alla Dea Fortuna.

 

 

(Allerta SPOILER) Tutto è pronto per rappresentare la “ronde” dei sentimenti che si dipana ne La Dea Fortuna, il nuovo lungometraggio di Ferzan Özpetek, due anni dopo il notevole Napoli velata, (forse) il miglior film del regista turco. Ci sono tutti gli elementi del cinema di Özpetek ne La Dea Fortuna. E, in particolare, un malessere esistenziale diffuso, una tristezza e un dolore che permeano le immagini, un senso di morte e di fiducia, nonostante tutto, nella vita. Un ritratto, ancora una volta plurale in Özpetek, ben sintetizzato nelle parole che il figlio di Annamaria, Alessandro, recita agli altri durante un picnic e che, nella scena finale, saranno ripetute, in voce off dalla madre, mentre Arturo, Alessandro e i due figli della donna fanno il bagno al mare, fuggiti dai tentacoli crudeli dell’anziana madre di Annamaria: «La Dea Fortuna ha un segreto, un trucco magico. Come fai a tenere sempre con te qualcuno cui vuoi molto bene? Devi guardarlo fisso, rubi la sua immagine, chiudi di scatto gli occhi, li tieni ben chiusi. E lui ti scende fino al cuore e da quel momento quella persona sarà con te per sempre.» Sono parole che aderiscono al senso del/di un cinema che “ruba immagini”, rende visibile quanto sta sotto la superficie delle cose, dei corpi. Con La Dea Fortuna, Özpetek di-segna un percorso (fino al sorgere di una nuova, inattesa famiglia) che, nel suo farsi, alterna velocità e lentezza, esuberanza e paralisi, complicità espanse (fra i tanti personaggi, c’è posto anche per quello incarnato dalla “musa” del regista, l’attrice turca Serra Yilmaz) e reazioni a ipocrisie e crudeltà (di Elena, interpretata da Barbara Alberti, madre di Annamaria, di casato nobile; era lei a rinchiudere la figlia bambina che si sente all’inizio, cinica ieri come oggi, di fronte alla notizia della morte di Annamaria). Perché il personaggio cui Jasmine Trinca dà sfumature lievi e profonde, muore di cancro (non è la prima volta in un film di Özpetek). E nitida è la costruzione della sua uscita di scena. Arturo e Alessandro sono in ospedale, dove lei è ricoverata. Improvvisamente, si sente male, intervengono i medici, la portano via d’urgenza. I due uomini rimangono soli nella stanza, sconvolti. Con un’ellisse precisa, le due scene successive descrivono l’arrivo di Arturo e Alessandro nella villa di Elena e la veglia funebre. Solo allora, dopo alcuni istanti di dubbio, si sa che la giovane madre è morta. Özpetek lavora per scarti e unioni, per frasi ampie e punteggiature secche. Andando dritto al cuore delle cose.