Nell’elaborata articolazione del racconto di guerra tra due clan della mafia garganica, Ti mangio il cuore è comunque un film ben iscritto in pochi elementi, che Pippo Mezzapesa dispone in maniera chiara sin dai primi minuti: la terra, innanzitutto, quella di una regione che recupera i suoi scenari più arcaici, fatti di costruzioni antiche, strade strette e campi fangosi in cui si muovono “lupi, maiali e uomini”, per citare un dimenticato film di Kinji Fukasaku che sintetizzava magistralmente l’inevitabile percorso di violenza cui gli esseri umani sono naturalmente costretti. Così accade anche qui, sin dall’incipit ambientato diversi decenni addietro, con la strage di una famiglia che si fa poi modello di una spirale di vendetta destinata a riprendere in epoca a noi più vicina. Tutto si (re)innesca quando Marilena, bellissima moglie di un boss del clan Camporeale, e Andrea, rampollo dei rivali Malatesta, cadono preda di una bruciante passione. Per recuperare l’onore ferito, i Camporeale non possono che ridare fuoco alle polveri e da quel momento bisogna lasciare i due clan “a scannarsi tra loro”, come anticipato dall’altra e non meno simbolica sequenza iniziale dell’asta per portare in processione la statua della Madonna, dove già le due fazioni si delineano a perfezione. In questo schema molto chiaro, Pippo Mezzapesa ritrova così alcuni elementi a lui cari: il rapporto con la terra di Puglia, ad esempio, da sempre scenario prediletto e autentico personaggio che delinea e riassume i caratteri, come accadeva nel suo primo Il paese delle spose infelici o nel borgo abbandonato del successivo Il bene mio.
E poi il gusto per i volti, sempre al centro dell’inquadratura in formato panoramico, su cui si consuma letteralmente il dramma. Si va da quello angelico e progressivamente sempre più “macchiato” e “sporco” di Francesco Patanè a quello intenso di Elodie, qui al suo esordio cinematografico e capace di tratteggiare un ritratto di donna volitiva eppure fragile. Ma a volerne scegliere davvero uno solo, è Lidia Vitale il volto del film, matriarca spaventosa che giostra le dinamiche della faida con spietatezza e grandeur shakespeariana, indirizzando il tragico percorso di trasformazione del figlio. Mezzapesa non arretra nel ritrarre questo universo distruttivo, è diretto nella rappresentazione di una brutalità che non lascia scampo, ma allo stesso tempo, gioca con i registri dell’epica dando forma a un moderno western dal sapore crime, che trova così una sua efficace stilizzazione. Merito anche della bella fotografia in bianco e nero di Michele D’Attanasio, uno che conosce bene il valore delle geografie italiane e la loro ricaduta sulle storie e sui corpi, come aveva dimostrato nel già citato Il paese delle spose infelici, e poi ancor più in Capri-Revolution di Martone o Il grande spirito di Sergio Rubini. Ti mangio il cuore diventa perciò un film di fantasmi di un’epoca lontana che ancora non hanno smesso di tormentare il presente, un “oggi” (siamo nei primi anni Duemila) di poca tecnologia e contatti umani brutalmente diretti, dove ci si strappa la faccia a fucilate e il corpo è oggetto del desiderio ma è anche capace di scomparire in fretta tra la folla, quando il velo copre, ancora una volta, il viso.
Torniamo così nuovamente a Fukasaku, a un cinema molto consapevole dei suoi meccanismi artistici e di fiction, ma che reca con sé una verità filosofica sul modo in cui guarda il mondo e lo racconta. D’altra parte, sebbene sia una storia di finzione, Ti mangio il cuore ha un piede ben piantato nel reale, nelle vicende della cosiddetta “quarta mafia” raccontate nel libro di Carlo Bonini e Giuliano Foschini che ha fornito uno dei punti di partenza per la sceneggiatura. L’altro è la storia di Rosa Lidia Di Fiore, che all’inizio degli anni Ottanta, dopo aver amato gli uomini di due clan rivali, aveva infine rinunciato alla guerra per amore dei figli, diventando così la prima pentita della mala pugliese. Presentato in Concorso Orizzonti alla Mostra di Venezia 2022.