La maschera dell’utopia: alla Woche der Kritik di Berlino Abendland di Omar Fest

È tutto girato in una foresta, Abendland (letteralmente “Occidente”) di Omar Fest, presentato in prima mondiale alla Woche der Kritik 2024 di Berlino. Tutto salvo le ultime inquadrature dal lato della strada, dirimpetto all’entrata nel bosco dove si trova una stazione di benzina, nella quale si reca la protagonista prima di riavviarsi nel fitto della vegetazione, mentre un camion entra in campo a segnare una separazione netta tra due mondi e due idee e pratiche del vivere. Una scena che fa venire in mente il finale (uno dei finali più grandi di tutta la storia del cinema) di Fahrenheit 451 di François Truffaut, ovvero la comunità degli esseri viventi-libri radunata in una foresta e che lì inizia una nuova esistenza di resistenza a una società autoritaria. È come se la scena finale di quel film del 1966 si espandesse e occupasse tutto il corpo di Abendland. Si tratta di un film abitato da personaggi che hanno dato vita a una comune utopica nel cuore di una foresta e con i quali entra in contatto una giovane donna sfuggita, all’inizio del film, a una rappresaglia della polizia, mentre con altri attivisti tutti con i volti coperti da maschere (lei ne usa una con l’immagine di Angela Merkel), stava agendo un’azione di protesta per impedire l’abbattimento di alberi. Corre, scappa, inciampa, cade in un burrone, attraversa un corso d’acqua, riesce faticosamente a risalire, è ferita a una gamba, incontra due bizzarri personaggi anche loro mascherati, vi si allontana, non smette di cercare una via d’uscita, il telefono si è rotto e comunque da quelle parti non c’è campo, finché il suo errare la porta nello spazio che gli uomini e le donne della comune hanno scelto come loro nuova dimora. Tante “case” costruite in cima agli alberi. Una visione orizzontale e non gerarchica. Un cordone ombelicale tagliato con il mondo esterno. Nessuna possibilità di comunicare con mezzi elettronici per evitare di essere tracciati. Nessuna restrizione al rimanere o andarsene.

 

 
Ma se “Merkel” è un’attivista, loro non si definiscono tali, praticano un’utopia, una forma di autonomia, di autoisolamento. E diffidano della nuova arrivata. Una cosa però la condividono: anche loro portano una maschera che non tolgono mai (tranne quando, ritualmente, si svestono e scambiano i vestiti e le maschere perché in quella comune fluida è regola che ognuno e ognuna assuma a turno un’identità diversa) e che può avere le sembianze di un animale, uno spaventapasseri, un personaggio del cinema o della politica. Pure una di loro (l’unica che alla fine se ne andrà) “è” Angela Merkel, la chiamano Angie. E saranno le due “Merkel” a specchiarsi fino a scambiarsi abiti e maschere. Sono due ragazze che finalmente vediamo in volto. L’attivista prenderà il posto dell’altra e deciderà di rimanere assumendo per il momento l’identità di colei che infine è tornata nella società tradizionale – prendendo, nello scambio, il posto, le abitudini, gli spazi quotidiani dell’attivista.

 

 
Diretto da Omer Fast, regista – nato nel 1972 a Gerusalemme, cresciuto a New York e residente a Berlino, dove lavora – al suo terzo lungometraggio (ma è anche artista visivo che con le sue installazioni sfuma i contorni tra documentario e finzione), Abendland – ispirato dal lavoro degli attivisti climatici che dal 2012 occupano la foresta di Hambach in Germania – ha una struttura compatta, una tensione costante, un ritmo incalzante declinato su varie modulazioni a seconda delle situazioni trattate: gli scontri iniziali tra attivisti e polizia, la lotta per la sopravvivenza di “Merkel”, le relazioni spigolose all’interno della comune soprattutto di fronte a quell’intrusa che farà fatica a farsi accettare e che alcuni che vivono nella foresta immaginano possa essere una spia, la solidarietà tra le due giovani quando il film si intrattiene soltanto con loro e paiono davvero un unico/doppio personaggio in cerca del proprio stare nel mondo. Una visione, anche sonora, di notevole precisione. È stata una sfida far recitare tutto il cast indossando delle maschere, rischiando di cadere nella caratterizzazione caricaturale. Invece, questo aspetto di grottesco non risulta mai fastidioso e dialoga in sintonia con le altre cifre estetiche adottate. E ne esce un’opera che ci pone a riflettere sul contemporaneo evitando retorica e semplificazioni.