Il ritmo interiore di La pantera delle nevi di Marie Amiguet e Vincent Munier

Un fotografo francese abituato all’osservazione solitaria della natura, Vincent Munier; uno scrittore e viaggiatore, il suo connazionale Sylvain Tesson, che in Italia viene pubblicato perlopiù da Sellerio; una regista all’esordio, Marie Amiguet, con esperienze precedenti da direttrice della fotografia. Il primo è il motore di un’avventura invernale sugli altopiani maestosi del Tibet, nella quale coinvolge per affinità elettiva il secondo (che la fisserà su carta), mentre la terza filma in condizioni estreme l’azione (ma sarebbe meglio dire: la contemplazione) dei due, contando sulla complicità (e l’aiuto) di entrambi. La pantera delle nevi di Marie Amiguet e Vincent Munier è un film che richiede di adeguarsi senza resistenze al suo ritmo interiore; un ritmo che in certi passaggi è accompagnato dall’unica presenza “aggiunta”, ovvero dalle note elegiache di Warren Ellis & Nick Cave (in quest’ordine, ribaltando la consolidata gerarchia tra i musicisti: qui infatti Ellis compone e suona, Cave presta la voce), altrove lasciato al silenzio totale. La cinepresa riprende con pazienza i lunghissimi appostamenti dei protagonisti, che ricorrono a un’attrezzatura minima per filmare e fotografare a loro volta, cercano di essere felpati nell’approccio e si camuffano alla bell’e meglio, cercando di imitare la naturalezza di animali che vivono in condizioni limite, a cinquemila metri di altezza, con temperature rigidissime.

 

 

Lo scopo dichiarato è quello di catturare immagini (fisse e in movimento) della pantera delle nevi che dà titolo al progetto cinematografico: un felino talmente raro che a un certo punto ti chiedi se non sia piuttosto una chimera oppure l’impresa a cui tendere idealmente ma in realtà non realizzabile, se non addirittura un’ossessione alla Achab. Nulla di tutto questo, in verità, perché la filosofia che Munier e Tesson fanno propria è quella di Milarepa, poeta e religioso buddista dell’XI secolo, che avrebbe vissuto per un certo periodo nelle grotte dei dintorni, come ricorda a un certo punto Tesson; un eremita il cui stile di vita viene per l’occasione sintetizzato in una manciata di esortazioni: «Venera ciò che sta davanti, non aspettarti nulla, abbi fede nella poesia, sii contento del mondo, battiti perché non muoia». L’obiettivo di Amiguet, quando è puntato sui sodali, è molto ravvicinato e ne coglie il respiro e i sussurri, le espressioni sotto gli abiti pesanti, oltre che le riflessioni; invece riprende da lontano, con potenti teleobiettivi (non potrebbe essere altrimenti) e con assoluta nitidezza, l’ambiente sotto osservazione e le figure che lo popolano. Che sono animali “comuni” come lupi grigi, orsi, asini, piccoli roditori, uccelli grassocci e multicolori, volpi; ma anche specie meno consuete come antilopi tibetane, yak (evocativamente definiti «i vessilli di un’era interrotta»), baral (un tipo di capra che, curiosamente, è detta anche “pecora blu”), gatti di Pallas. Verso tutti essi – diffusi o rari che siano – e anche verso le sporadiche presenze umane indigene, c’è intatto lo stupore dell’incontro, forse naturale da sempre per l’occhio allenato di Munier, ma tale infine anche per Tesson e per lo spettatore. Forse perché l’atteggiamento non è quello che l’uomo normalmente esercita come fosse un diritto divino, da intruso arrogante quando non addirittura da predatore, bensì da mite ospite, osservatore che cerca di disturbare il meno possibile.

 

 

Presentato a Cannes 2021, quindi premiato ai Cesár 2022, nonché vincitore del premio quale miglior documentario di Esplorazione e Avventura al Trento Film Festival di quest’anno, La pantera delle nevi viene distribuito sul territorio italiano dopo alcuni rinvii. Per l’edizione nazionale è stata immaginata una variante forse non particolarmente fluida, ma alla quale ci si abitua senza traumi, e che infine risulta convincente: non i sottotitoli da associare all’audio originale (come sembrava in un primo momento), ma nemmeno un doppiaggio vero e proprio, quanto piuttosto la voce dello scrittore Paolo Cognetti per restituire la narrazione letteraria di Tesson, autore prolifico e parecchio tradotto pure in Italia (oltre a La pantera delle nevi, nel catalogo di Sellerio ci sono: Nelle foreste siberiane, Abbandonarsi a vivere, Beresina. In sidecar con Napoleone e Sentieri neri). Quasi un passaggio di consegne, tra l’altro, considerato che il Premio Strega 2017 (con Le otto montagne), a sua volta viaggiatore da grandi spazi aperti, pare sempre più coinvolto dal cinema, direttamente (come dimostra Sogni di grande Nord di Dario Acocella) o indirettamente (è imminente l’uscita dell’adattamento per il grande schermo del suo romanzo più noto, realizzata da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch), oltre a essere un lettore affezionato di Tesson medesimo. C’è giusto una nota di rimpianto, nella riflessione che pervade l’opera, indirizzata a una mitica «età dell’oro in cui uomini, animali e divinità parlavano una lingua comune». Ma, preso atto che essa non corrisponde all’attuale, prevale la serenità di fondo garantita dal rifiuto della frenesia, dello stress, dalla determinazione a non farsi dettare il tempo da alcuna scadenza che non sia quella del nascere e del morire. Un elogio della lentezza e dell’estasi contemplativa, in cerca di armonia: magari non inedito per forma e contenuti, ma con una resa appagante, taumaturgica.