L’impermanenza della pietra, che da indice di imperitura memoria diviene scandalo per l’occhio ferito dei popoli. La Storia conosce bene l’ira delle folle che abbatte le statue dei dittatori, così come conosce la vendetta dei dittatori che si abbatte sui simulacri dei liberatori. Un ciclo infinito degli eventi in seno alle epoche e alle genti, uno slittamento di senso tra la carne martirizzata dei corpi e la pietra scalfita dei monumenti, un passaggio di consegne tra la pietà per le mortali spoglie e l’odio per le immortali effigi: un dialogo rovente, in cui si pretende di azzerare il tempo, annullare ciò che è stato e definire un nuovo inizio. Rivoluzione o restaurazione che sia, si tratta di una dinamica antica, alla quale Valerio Ciriaci guarda con spirito attuale nel suo documentario Stonebreakers, in questi giorni presentato a Firenze, nel Concorso nazionale del 66mo Festival dei Popoli. 70 minuti a confronto con l’America del Black Lives Matter che leva il pugno contro i simboli storici di un razzismo sistemico che s’innerva nel paesaggio quotidiano e si traduce in iconografia del dolore da sradicare. Valerio Ciriaci, che in America ci vive dal 2011, parte dal racconto della rimozione dei monumenti, chiesta e ottenuta dalle comunità nere, diffondendola sullo scenario di un paese che sembra distante, assente.
La formula visiva del film risponde alla colorimetria a stelle e strisce: paesaggistica grandagolare, cieli tersi e fuochi d’artificio, edifici monumentali e lunghi viali percorsi da folle e parate… A fronte di questo setting retorico si pone l’apparato di interviste brevi e incisive e soprattutto i piani ravvicinati degli attivisti che picchettano trionfanti le operazioni di rimozione delle statue di Cristoforo Colombo, dei primi coloni e via dicendo. Intanto Ciriaci punta l’obiettivo anche al muro messicano che viene eretto, alle ragioni degli amerindi così come alla folla che ascolta Trump. Non senza cercare (o forse consapevolmente subire) un allineamento interessante di paesaggi e volti originariamente opposti, ma fatalmente amalgamati nell’impianto visuale che la scena complessiva impone al suo sguardo e alla sua camera. L’aspetto davvero interessante di Stonebreakers è proprio la capacità di Ciriaci di mantenere una compostezza di sguardo che lo pone quasi al di fuori della Storia, neutrale non certo dinnanzi alle ragioni dei volti che osserva, ma di sicuro di fronte ai Tempi di cui quei volti sono espressione. Sarà un effetto dei ralenti, della musica, della paesaggistica contrapposta ai dettagli, ma il film ottiene un interessante livellamento simbolico, semantico, tra l’ergersi del potere (edifici, monumenti, parate, folle) e il levarsi degli oppositori, dei contestatori. C’è un vissuto nostalgico che emerge dal film e che proviene probabilmente da una visione della Storia come flusso di forze, emozioni, pulsioni del popolo. E sembra dire che l’energia del martello pneumatico che ha scolpito il volto dei presidenti sul Rushmore e la stessa che abbatte oggi i simboli del razzismo. E proviene dal basso: people have the power…