La vertigine sensoriale di Tzipora and Rachel Are Not Dead di Hadar Morag

Hadar Morag

Nel 2015 avevamo assistito alla nascita cinematografica di una nuova regista, l’israeliana Hadar Morag. Il suo primo lungometraggio Lama Azavtani, era stato la folgorazione della Mostra di Venezia di quell’anno. Un’opera d’immensa densità materica, quasi senza dialoghi, concentrata fino allo spasimo su due figure maschili scaraventate dentro un abisso. Un capolavoro al quale pensare e ripensare. Otto anni dopo, Morag è tornata con un nuovo film, Tzipora and Rachel Are Not Dead (presentato nei giorni scorsi al festival DocLisboa, appuntamento rilevante per osservare lo sviluppo del cinema del reale). Un altro testo spiazzante, l’ideale prosecuzione, ma sarebbe meglio dire sovrapposizione, del film precedente, esprimendo – attraverso una situazione del tutto diversa – la stessa linea di tensione che abitava Why Hast Thou Forsaken Me. L’altro volto di uno stesso disagio e confronto/scontro con il mondo e una società che emarginano chi non rientra nelle “regole”, togliendo loro letteralmente il respiro (in tal senso il cinema di Morag è profondamente politico, necessario, urgente). L’altro volto perché in Tzipora and Rachel Are Not Dead Morag porta in primo piano tre figure femminili, due sorelle (quelle del titolo) e la loro madre. Controcampo a quelle dell’arabo Muhammad e dell’israeliano Yuval protagonisti del film d’esordio di Morag. Che era un film di pochissime parole, mentre Tzipora and Rachel Are Not Dead è colmo di dialoghi. Che era un film di finzione, mentre questo secondo è un documentario. Ma le categorie rigide non si addicono al cinema della cineasta di Jaffa che scardina qualsiasi bordo, lo fa esplodere, crea immagini che hanno la potenza di rendere gesti e parole come se fossero (stati) filmati per la prima volta.

 

 

Un cinema dell’origine, quello di Morag, di chi si sorprende a filmare come se lo schermo fosse ancora vergine e lo spettro delle possibilità infinito (nel senso dello stupore del bambino, che ignorando un colore può vedere in un posto un’infinità di colori, identificato da Stan Brakhage, e dell’atto di “vedere con i propri occhi”, The Act of Seeing with One’s Own Eyes, teorizzato dal filmmaker statunitense nel titolo del suo film sulle autopsie, che è il significato greco del termine “autopsia”). E infatti nei suoi due lavori Morag compie un esame autoptico sui corpi dei personaggi filmati. Tzipora e Rachel (che ha poi cambiato il suo nome in Tahel) sono due sorelle. La prima gravemente affetta da disturbi psichici che l’hanno confinata in un ospedale psichiatrico, imbottita di pillole, resa dipendente da esse, strafatta e stravolta nella mente e nel corpo. Rachel la riporta a casa, sottrae a quell’inferno, si prende cura di lei in una relazione di costante e febbricitante tensione fisica e interiore, in un corpo a corpo di parole, urla, frasi ripetute, canzoni accennate, complicità che sfociano in risata o in pianto. Una relazione che si espande a quella con la madre anziana, portatrice di altri st(r)ati di confusione, affetto, di altre parole e gesti ripetuti che affondano nel presente e nella memoria di quelle donne ebree di origine yemenita. Una famiglia numerosa, colpita da lutti, dove la presenza maschile rimane fuori campo. In un film girato, come si legge nella scritta iniziale, nel corso di sedici anni e che unisce due punti di vista, quello della regista e quello di Tahel Ran (attrice, performer, scrittrice, aveva già recitato nel cortometraggio di scuola Silence diretto nel 2008 da Morag), che infine si compenetrano l’uno nell’altro.

 

 

Spiega Morag che il film è stato girato con due camere e due sguardi: “la mia prospettiva esterna ‘più sicura’ e la testimonianza psichica, intensa, ‘dalle viscere’, di Tahel che ha filmato con il suo telefono cellulare”. Le due estetiche, nella loro riconoscibilità, si alternano ma non in un senso anche qui pre-ordinato, piuttosto sfuggono a se stesse per ri-trovarsi nell’altra, generano un magma visivo che tras-porta le fonti originarie in un nuovo livello di visione dove il tempo perde le sue coordinate lineari per assumere una dimensione altra, dilatata, che richiama lo stato emotivo di Tzipora e Rachel – proprio come accadeva in Why Hast Thou Forsaken Me. Con sublime senso etico, Morag “fa suo” il materiale girato da Tahel, proveniente dall’archivio intimo della donna, lo “tratta” come un found footage cui dare nuova visibilità con rispetto e compassione. È stra-ordinario come Tzipora and Rachel Are Not Dead si specchi in Why Hast Thou Forsaken Me, come certe scene dialoghino con limpido splendore (dentro la sofferenza massima diffusa ovunque) con il film del 2015: dettagli dei corpi, il girare in bicicletta di Rachel, il terrazzo dell’appartamento di Tel Aviv dove i corpi delle due donne agiscono creando una vertigine sensoriale; e soprattutto la “tenuta” delle scene, delle inquadrature, lunghe, in piano sequenza con livelli differenti tra movimento convulso della camera o sua (im)mobilità – in entrambi i casi come se, tanto Tahel quanto Morag, non riuscissero a staccarsi da quanto stanno riprendendo. Tzipora and Rachel Are Not Dead potrebbe essere un film di durata infinita, anche in ciò avvicinandosi alla poetica del cinema underground storico, che invece di cento minuti potrebbe durare giorni, settimane, anni.

 

 

La scena finale non è quindi che l’esemplare compimento di tale percorso. Un’altra scena in cui lo sguardo di chi filma non vorrebbe mai staccare. Siamo nel letto d’ospedale dove Tzipora è morta, il suo corpo nel letto, Rachel che non riesce a staccarsi da lei, che si allontana per poi tornare accanto al cadavere della sorella, ancora per un istante, più volte, per un ultimo contatto fisico. Morag filma in totale, leggermente distante. A un certo punto qualcuno le chiede: “Hadar, vuoi andartene?”. Lei risponde: “No, rimango”. Rimanere per testimoniare, ecco il senso del cinema di Hadar Morag. Un cinema, il suo, indipendente, libero, sovversivo, grondante umanità, quella che r/esiste (d)agli abissi e (d)al buio. Un cinema sempre più difficile da realizzare in Israele dove per accedere ai finanziamenti il governo “chiede di firmare la clausola per cui si è ‘leali al proprio Paese’. Non lo farò mai”, afferma la regista nell’intervista di Lucrezia Ercolani su Il manifesto del 29 ottobre. Attiva socialmente, impegnata nel lavoro con famiglie arabe in difficoltà e con donne nella spirale della prostituzione, Morag avanza per la sua strada senza compromessi. Attualmente sta lavorando a un nuovo film dal titolo Talitha Kumi.