Il presente e il passato sono il centro del racconto di Ritesh Batra in L’altra metà della storia, tratto dal romanzo Il senso di una fine di Julian Barnes che pare abbia consigliato agli sceneggiatori (Batra e Nick Payne) di prendersi le libertà necessarie alla trasposizione cinematografica di una storia più che mai intima e lieve.«Il modo migliore per essere fedele a un romanzo è quello di tradirlo. Avendo avuto carta bianca dall’autore del libro ho voluto strutturalmente giocare con la storia. Una storia di formazione, ma non di un adolescente, bensì di qualcuno che ha ormai superato i sessant’anni. Spesso le storie di formazione riguardano per lo più persone giovani ma tutti quanti nelle nostre vite continuiamo a cambiare e a formarci a qualsiasi età in base a quello che viviamo». I sentimenti, dunque, analizzati nel flusso della quotidianità, che cambiano d’improvviso, con l’arrivo di una lettera, e vanno a travolgere certezze messe insieme nell’arco di una vita, anche se traballanti e incerte. Il senso del film sta proprio nel mettere in discussione il presente di una persona, e tutto il tempo, le azioni, gli atteggiamenti da un punto a un altro della sua vita. La scoperta di sé di un uomo quando riceve una lettera che lo porta indietro a quando la fidanzata dei tempi del liceo si era messa con il suo migliore amico, lasciandolo in uno strano stato di confusione, tra indifferenza e rabbia. “Per caso” vince la rabbia, con le molte e tragiche conseguenze che per tutta la vita crede di aver causato, cambiando umore, carattere, adesione alla sua stessa esistenza, passandoci attraverso inavvertitamente.
Questo il quadro generale di un film che, però, vive di miniature e dettagli. Ogni gesto e ogni parola acquistano via via un doppio significato, dato loro da una semplice rivelazione. L’altra metà della storia, appunto, come recita per una volta con esattezza il titolo italiano. E nella cesura tra le due metà sta tutto il senso del film, ma anche il suo “pretesto”. La verità non è ciò che ci dice la memoria, che ha una volontà tutta sua, imprevedibile ma anche insondabile. La finzione inconsapevole, le giustificazioni, i sensi di colpa, lo stupore e talvolta la rabbia vanno a occupare i tasselli rimasti vuoti, le domande senza risposta custodite in quella parte di storia in ombra. Su questo si concentrano Ritesh Batra e il suo sguardo efficacemente sguarnito, che si sofferma sul paradosso di dare forma a corpi evanescenti. L’approcio del regista di Le nostre anime di notte è frontale nell’affrontare i dilemmi del suo personaggio con immagini semplici e un andamento lento del racconto, a tratti trattenuto, fatto di primi piani sinceri, immersi nella luce opaca inglese. La verità è frutto di compromessi tra tempo e memoria, come lo stesso protagonista afferma nel finale, quando ritrova quella parte di sé che aveva lasciato dentro un cassetto di fotografie: «La storia della nostra vita non è la nostra vita, ma la storia che abbiamo raccontato agli altri e, soprattutto a noi stessi».