Le memorie immaginarie di Jojo Rabbit di Taika Waititi

Johannes Betzler (l’esordiente Roman Griffin Davis), 10 anni, non si sente all’altezza, e al suo migliore amico confessa: “Adolf, credo di non potercela fare”. Adolf, allora, cioè Adolf Hitler – che la mente del bambino convoca con frequenza -, lo incoraggia, gli dà la carica, puntualmente gli offre sigarette che altrettanto puntualmente Jojo con garbo (almeno fino a un certo punto) rifiuta. È teso, il ragazzino, per il suo primo giorno tra i ranghi della Gioventù hitleriana e ben presto le cose andranno di male in peggio: diventerà Jojo Rabbit per tutti, perché considerato vile come il coniglio che non riuscirà, che non vorrà, uccidere; e si farà goffamente saltare in aria con una mina che gli lascerà segni sul volto. Adolf, intanto, gli resta accanto, mentre Jojo – suo padre è in guerra, sua sorella è morta – scopre che la madre (Scarlett Johansson) nasconde una giovane ebrea in casa (Thomasin McKenzie), e tutto, pian piano, cambierà, si svelerà. Su Twitter, a riprese cominciate da pochi giorni, Taika Waititi scriveva: “What better way to insult Hitler than having him portrayed by a Polynesian Jew?” Perché qui Waititi, “l’ebreo polinesiano”, non solo è dietro la macchina da presa ma interpreta anche il Führer, in un film già scritto nel 2011 – tratto da Il cielo in gabbia di Christine Leunen, che il regista ha scoperto grazie a sua madre, innamoratasi del libro – e girato diversi anni dopo.

 

 

Un ruolo, in realtà, inizialmente previsto per essere recitato da qualcun altro, ma poi l’ipotesi di una star che potesse accentrare il tutto su di sé e sulla figura del dittatore ha cambiato le cose. E l’Hitler del Waititi attore e regista non è altro che una stupida e ridicola figurina, che non sa di essere farsesca, è una infantile, ingenua, improbabile immaginazione, è la compensazione che l’insicuro Johannes si dà, sperduto in quella Germania che non abbassa la voce della propaganda mentre chiede pentole e padelle alla popolazione per offrire altro metallo a una guerra ormai prossima alla sconfitta. Hitler è una spalla idiota, insufficiente, clamorosamente sopravvalutata (e se quello vero non mangiava carne, qui invece si nutre di unicorni); Jojo è un impacciato bambino antisemita ricco di fantasia che si innamora di una ragazza più grande di lui, dell’unica persona ebrea che abbia mai conosciuto. Jojo Rabbit si muove su questo, in effetti, va a slabbrare e a ricucire sentimenti e identità, a mascherare e smascherare verità e propagande, a incrinare i diversi piani per poi polverizzarli o capovolgerli, rivelarli in un ping pong – ora lieve ora drammatico e persino dolcemente crudele o cinico – di paradossi, di logiche, di sensi. Film da certe andature (e colori) che ricordano Wes Anderson, e sembra qui ritornare per qualche istante il campeggio di Moonrise Kingdom ma è un’illusione; film che gira e infine danza tra gli Heroes di David Bowie e la poesia di Rainer Maria Rilke. Sarebbe una commedia, ma non diverte fino in fondo. È una satira, ma si ride poco. Di didascalico, poche tracce. È un film intelligente e sa toccare corde emotive diverse, umori contemporanei e memorie immaginarie; perché sì, è anche – con delicatezza – triste, persino funereo, duro. In fondo più intelligente che bello, più interessante che compiuto, più “immediato” che semplice, perché nei dettagli (su tutte il motivo delle scarpette della madre e della ragazza) si esprime meglio che nel suo, forse ingestibile, insieme. Il cast è ineccepibile, con Sam Rockwell (e il suo capitano Klenzendorf) che sa essere un campione senza strafare mai. Scarlett Johansson ha una tenerezza determinante e balla come se fosse dentro un film muto. Candidato agli Oscar 2020 con 6 nomination, fra cui Miglior film e Miglior attrice non protagonista (Johansson).