Le molte memorie e il senso di instabilità in Die Einsiedler

2Un funerale. Attorno, vallate e montagne. Case di pietra. Animali. Una donna anziana in pesanti abiti da lavoro, il volto maschile scavato dalla fatica di una vita trascorsa in quel maso di famiglia lontano da Dio e dagli uomini, arroccato, raggiungibile solo per sentieri impervi (o, si vedrà poi in una scena, tramite una rudimentale funivia, usata dal marito per tornare a casa dall’ospedale con la gamba ingessata, aiutato in quel trasporto dal figlio). Un grande crocefisso appeso sull’esterno della casa. Non conosciamo ancora i loro nomi (scopriremo chiamarsi rispettivamente Marianne, Rudl, Albert). Stacco netto. A valle operai sono al lavoro in una cava di marmo, dentro e fuori una galleria. La mensa e le docce sono ambienti anonimi, algidi, e impersonali sono gli appartamenti dove risiedono quegli uomini impiegati in un’attività stabile o stagionale (ma fra loro c’è anche la giovane e bionda ungherese Boglarka, che tutti chiamano Paula non riuscendo a pronunciare il suo nome). Albert lavora lì e appena può si reca a trovare i genitori. Tutti parlano tedesco, ma da un televisore giungono in sottofondo voci in italiano.

Einsiedler

Non sono che le prime scene di Die Einsiedler (Gli eremiti, presentato in Orizzonti), primo lungometraggio di finzione dell’altoatesino Ronny Trocker, nato a Bolzano nel 1978 per poi frequentare la scena teatrale e musicale di Berlino, l’università di cinema di Buenos Aires e la scuola di arte contemporanea Le Fresnoy di Parigi, e realizzare documentari. Un film, Die Einsiedler, che, con esemplare rigore formale e altrettanta sensibilità nella descrizione dei personaggi e di quei luoghi senza nome (da qualche parte sulle Alpi, con Merano città non distante, come si vedrà nella scena finale con Albert che, dopo la morte dei genitori, abbandona il maso e il lavoro e sale su un treno verso una destinazione ignota, seduto in direzione contraria a quella del treno, sospeso tra la sua terra dalla quale si sta allontanando e un nuovo approdo tutto da costruire), di-segna l’isolamento, la solitudine, la fatica dell’esprimersi (si pensi a Marianne incapace, perché letteralmente non le escono le parole di bocca, di dire al figlio che il padre è morto e che lei ha dovuto seppellirlo scavando una fossa davanti alla casa; si pensi alla difficoltà di dirsi le cose fra Albert e Boglarka, che ha deciso di tornare a casa e che può solo chiedere timidamente a lui di seguirla…). Sono i corpi, i volti di interpreti magnifici, a dieeinsiedlercomunicare il senso di fine e di instabilità. È la natura, colta nella sua fisicità più profonda, a ergersi al tempo stesso protagonista e testimone dei fatti. È lo sguardo di un cineasta che sa filmare e sintetizzare in dense inquadrature gli elementi pre-disposti sulla sua tavola visiva. Uno sguardo discreto e imponente, raro da vedere al cinema, massiccio come una valanga e rarefatto come un prolungato e invisibile addio (si pensi alla sparizione dell’amico e collega di Albert, Gruber, nei boschi che affiancano la strada percorsa da loro due in auto). Rocce, terra che custodisce corpi seppelliti e molte memorie, neve, nebbia, pioggia, un falò, animali abbattuti per amore da Marianne, sentendo avvicinarsi una fine non più rinviabile, o liberati da Albert prima di lasciare il maso, la rabbia trattenuta che Marianne fa infine esplodere sparando al crocefisso appeso in una stanza. Trocker trova, ogni volta, la prospettiva giusta, il montaggio preciso, il sonoro nitido. Si pensa al cinema “della montagna”, ma prima di tutto al cinema sublime, dello svizzero Fredi M. Murer (a partire dal suo capolavoro Höhenfeuer, Il falò), o al breve The Last Farm dell’islandese Rúnar Rúnarsson. E Die Einsiedler, lontano da ogni superficiale citazionismo così come da ogni moralismo, espande ancor più la sua preziosa luce.