Noi due di Nir Bergman: un viaggio alla fine del mondo

Eterno tentativo compreso tra speranza e ostinazione, ogni relazione è follia e volontà, cura e tempo. Una questione di sguardo che non segue schemi. Desiderio di senso, tensione verso l’ignoto, faccenda imprevedibile e sfrontata di inaudita bellezza e sconcertante instabilità, la relazione si definisce in un equilibrio in movimento, continuamente spezzato, in cui l’altro occupa il posto iniziale e sorprende ogni volta, con la sua presenza, l’attesa che l’ha preceduto. Come direbbe De Certeau «l’Estraneo è a un tempo l’irriducibile e colui senza il quale vivere non è più vivere». Se non ci fosse il figlio Uri, verrebbe da chiedersi cosa sarebbe la vita di Aharon, il protagonista del film Noi due, dell’israeliano Nir Bergman. Dove andrebbe? Cosa farebbe? Chi sarebbe? Certamente vivrebbe da viaggiatore perduto. Il suo peregrinare attraverso il mondo sarebbe un altro andare. Invece Uri c’è. E Aharon dedica tutto se stesso per stare con lui, lontani dalla complessità del reale, immersi in una dolce routine quotidiana fatta di gesti semplici, riti, rifugi improvvisati ma stabili. Uri, per Ahron, è ancora un bambino che ama la pasta a forma di stella, i pesci del suo acquario, Charlie Chaplin consumato come una caramella e Gloria di Umberto Tozzi mentre si radono, al mattino, cantandola di fronte allo specchio. Loro due. Nessun altro. Il loro spazio. Niente altro di più. Il mondo è qui, non altrove.  

 

 

Uri deve fare i conti con un disturbo dello spettro autistico e adesso, giovane adulto, potrebbe avvalersi dell’assistenza di operatori specializzati, come spera la madre Tamara che vive distante ma che vorrebbe che si aprisse agli altri, accogliendo il cambiamento e una nuova prospettiva di casa. Ritenendosi l’unica alternativa del figlio, Aharon è poco propenso a dare retta a Tamara ma si adegua e organizza il viaggio che condurrà Uri presso un nuovo istituto. Tuttavia, la poca fiducia nelle istituzioni, la paura di perdere il controllo della situazione, il grande sentimento che lo lega al figlio, sempre più terrorizzato dall’eventuale separazione dal padre, una tenacia pura che si scontra con la durezza del suo orgoglio, fanno maturare in Aharon l’idea di sovvertire le regole del gioco e di scappare con Uri. Una fuga maldestra, senza una meta stabilita (forse gli Stati Uniti), ma affettuosa e liberatrice. Un viaggio che porterà padre e figlio non solo ad attraversare Israele ma a riconoscersi cambiati e, ovviamente, a prendere una decisione sul futuro di entrambi. A fare i conti con una storia di fallimenti e sorprese, timori e attese. Il film di Nir Bergman fissa lo sguardo su questa soglia, autentica e impercettibile, che separa il padre dal figlio ma permette allo sguardo del padre di riconoscersi in quello del figlio: tanto uno è protettivo, quanto l’altro è esposto; tanto uno è duro, quanto l’altro è fragile. Il film mette in scena la vulnerabilità del limite che fotografa questa relazione speciale, luogo in cui l’uno si confonde nell’altro, smarrendosi, non vedendo più altro. Una sorta di cecità cercata ma non voluta, una condizione a cui il film, in più di un’occasione, accompagna lo spettatore mediante un linguaggio asciutto, libero dagli intralci della retorica manipolatrice, appoggiandosi ai corpi ravvicinati in ricerca di una quiete. Carezze, sorrisi, intesa segreta, Noi due ruota intorno a questo alfabeto emotivo senza celare il dramma, la tensione, l’angoscia di perdere. 

 

 

Non a caso Nir Bergman ha dichiarato: «I paraocchi sono necessari ai cavalli per impedire che guardino di lato e si spaventino, perdendo l’orientamento. È così che ho percepito Aharon: mezzo cieco lungo il cammino, costantemente portato a minimizzare i propri bisogni per soddisfare quelli del figlio autistico. Per assisterlo e proteggerlo. Deve essere impossibile vedere un’altra strada, un percorso diverso, al di là di questi paraocchi. E i paraocchi, non dimentichiamolo, fanno anche in modo che Aharon non si guardi dentro e non faccia i conti con i fallimenti della propria vita… Ero curioso di scoprire se la realtà, quella che padre e figlio devono affrontare durante il viaggio, potesse rivelare ad Aharon una nuova verità. Mi sono chiesto: si renderà conto che lui stesso si sta nascondendo dietro al figlio, perché non è solo il figlio che sta cercando di proteggere? Se metto i paraocchi, come Aharon, anch’io vedo solo Uri davanti a me: non lo facciamo forse tutti, quando diventiamo genitori? Mentre i nostri figli crescono e diventano indipendenti, però, i bambini autistici continuano a essere vulnerabili ed esposti. È così difficile ammettere che anche loro crescono e diventano grandi».  Cosa significa essere padre? E essere figlio? Il viaggio raccontato nel film assume un valore universale e serve a dare risposta a tutto questo perché Noi due non è un film sull’autismo o sul padre di un bambino autistico, o sulle sfide di un uomo con un bambino con bisogni speciali in famiglia. A poco servirebbe accostarlo ad altri titoli che hanno trattato la questione dell’autismo. Noi due è un film su un padre e un figlio. Sull’inevitabile separazione tra genitori e figli. È un film sulla fatica di guardare oltre (e non è casuale la scelta del bottone immaginario che apre le porte scorrevoli). Un film sulla fatica dell’essere umani, cifra esistenziale qui espressa non a parole ma con la semplicità dei piccoli gesti e la complicità dei silenzi tipici di quel cinema muto rappresentato da Il Monello di Charlie Chaplin. Un film che invade di continuo il film, che gioca un ruolo cruciale nella relazione tra padre e figlio e che attraverso il suo spirito, l’umorismo e la tenerezza, sembra ricordare allo spettatore la bellezza liberatrice delle immagini e del cinema.