Quando l’indagine scivola nell’attrazione: Decision to Leave di Park Chan-wook

Hae-jun (Park Hae-il) è un poliziotto di Busan con problemi di insonnia, che prova a combattere lavorando anche di notte. La moglie vive lontana e lui la raggiunge, per vivere momenti di apparente serenità, solo durante i fine settimana. Si amano, certo, ma negli occhi di Hae-jun è sempre presente un velo di malinconia, di insoddisfazione, di rabbia repressa. A vivificare un quotidiano di routine arriva un nuovo caso da risolvere: la morte di un appassionato di arrampicata caduto da una vetta dopo una scalata. Si è suicidato? È precipitato per un incidente? O qualcuno lo ha ucciso spingendolo di sotto? Indagando sull’accaduto, Hae-jun incontra la vedova dell’uomo, Seo-rae (Tang Wei, eccellente), emigrata clandestinamente anni prima dalla Cina, che sembra vivere il lutto con pudico distacco. La donna ha un alibi accertato ma molte cose sembrano non tornare nella sua ricostruzione dei fatti. E più le circostanze sembrano incastrare la donna più Hae-jun si sente attratto da lei, in una sorta di legame protettivo che implica uno scacco morale. Il destino li allontanerà solo per poco tempo, perché il filo che li lega si ingarbuglia senza spezzarsi, si rincorre come in un cerchio temporale che unisce passato e futuro in una sorta di presente assoluto e sospeso: il tempo degli amanti. In Decision to Leave, con cui Park Chan-wook torna a girare in Corea dopo la parentesi seriale di La tamburina, regna un tono perennemente incerto, agitato da un lieve disequilibrio che è in fondo il tema portante del film.

 

 

Le notti insonni del poliziotto, l’uso del collirio per permettergli di vedere meglio, le differenze linguistiche dei protagonisti capaci però di capirsi alla perfezione, il tempo che sfugge, le certezze che svaniscono, i ruoli che sfumano. Decision to Leave è un’indagine che si sfrangia in un’attrazione, un noir che diventa romance. Park costruisce con millimetrica definizione la messa in scena di questa materia in continuo movimento, decostruendo le linearità della trama e cercando l’essenza nella reiterazione sentimentale dei suoi protagonisti. Il montaggio sembra disvelare il film nel suo farsi, davanti ai nostri occhi; l’uso delle tecnologie apre nuove strade di messa in scena invece di creare inciampi e costrizioni; la libertà della cadenza narrativa alterna solennità e intimismo. Non c’è infatti una soluzione definita allo svolgersi degli eventi: il caso poliziesco è da vivere più che da risolvere, un fardello emotivo più che un enigma. In un vortice di senso e linguaggi, di fascino e nostalgia, Park costruisce un film impossibile che fa convivere Hitchcock e Basic Instinct, La vedova nera con lo sfacciato mélo, senza mai cadere nel tranello della citazione, dell’imitazione, del calco. Decision to Leave è un film libero di quella libertà che non sempre sanno cogliere i suoi protagonisti, trascinati in un valzer linguistico che li conduce vorticando verso la conclusione, quel partire che risuona dal titolo. Si vive il momento perché non c’è futuro che non sia già scritto nel passato, in una forma distillata di provvisorietà. Ci si arrende alla molteplicità delle interpretazioni, si colgono attimi di esistenza che non riescono mai a diventare vera vita vissuta. Non c’è una spiegazione univoca in Decision to Leave, quanto il tentativo di arrestare lo srotolarsi del tempo verso un poi già definito, di difendere un amore sempre sul punto di sbocciare, di esplodere, di essere – letteralmente – detto. Un film che trascende i generi per fonderli e confonderli: quello che in fondo accade in ogni storia d’amore che si prova a raccontare con le parole incerte ma cristalline degli amanti.