Secret Love di Eva Husson: rinascere dalle proprie ceneri

«Hai servito per troppo tempo. Il tuo lavoro è sempre stato osservare la vita». Osservare la vita degli altri, da spettatrice e anche da protagonista. Questo è quello che fa fin dalla più tenera età Jane Fairchild (Odessa Young), abbandonata alla nascita e cresciuta in orfanotrofio, a partire dai 14 anni a servizio in famiglie benestanti. Nell’aprile 1918 è da poco arrivata dai Niven (Olivia Colman e Colin Firth) che hanno perso il loro unico figlio in guerra: la signora è totalmente assente, perennemente infastidita dal marito che cerca di ritrovare una parvenza di normalità. Un giorno Jane conosce Paul Sheringham (Josh O’Connor, il principe Carlo di The Crown) e, nonostante siano di classi sociali differenti, inizia con lui una relazione sentimental-sessuale per entrambi molto importante. «C’era una volta» così inizia Secret Love con il primo piano di Jane che guarda dalla finestra (e tanti saranno i momenti in cui la giovane scruta le vite e le case degli altri, entrando nella loro intimità). Poi parole scritte a penna che riprendono momenti e situazioni vissute e che rivelano da subito la filiazione letteraria del terzo lungometraggio – dopo Bang Gang (une histoire d’amour moderne) del 2015 e Les filles du soleil del 2018 – di Eva Husson che ha trasposto su grande schermo, con la sceneggiatura di Alice Birch, il romanzo Mothering Sunday di Graham Swift (in italiano, Un giorno di festa, edito da Neri Pozza).

 

 

In particolare l’azione si concentra sul 30 marzo 1924, festa della mamma in cui per tradizione le domestiche vengono lasciate libere per rendere visita alla loro madre. Ma Jane non ha nessuno e quando riceve la telefonata di Paul è felice di passare una parte di quella giornata con lui. Per la prima volta può entrare dalla porta principale perché a casa Sheringham i genitori sono andati al tradizionale picnic e la domestica è in libera uscita. Paul che sta per diventare avvocato ha inventato la scusa di dover studiare, ma dovrà raggiungere i genitori e i loro amici per il pranzo. E soprattutto ritrovare la triste Emma (Emma D’Arcy), amica d’infanzia che avrebbe voluto sposarsi con il fratello di Paul, James morto in guerra come l’altro fratello, e che di lì a 11 giorni è destinata a diventare sua moglie perché anche così si suggellano le amicizie facendole diventare parentele. Una giornata fatidica destinata a rimanere impressa nella memoria di Jane che sta per perdere tutto e rinascere a una nuova vita. Costruito con continui andirivieni tra presente e passato, con personaggi delle varie epoche che si manifestano come presenze fantasmatiche, il film si articola su varie linee temporali: innanzitutto il 30 marzo 1924 che è il giorno in cui tutto cambia e in cui Jane si sente dire dalla signora Niven: «Che fortuna essere privata da tutto dalla nascita. Non hai niente da perdere. È una benedizione» e soprattutto capisce che se davvero non ha «niente da perdere e tutto da guadagnare» può diventare padrona della sua vita e fare la scrittrice per la capacità insita nella scrittura di riformulare e quindi rivivere i ricordi.

 

 

C’è poi nei racconti e in alcune immagini il passato felice di Paul bambino con i fratelli e l’amico (il tempo «prima che i ragazzi venissero uccisi») e il presente di Emma in cui lascia il lavoro da domestica per lavorare in una libreria, incontra Donald (Sole Dirisu), che diventa il suo uomo e la incoraggia a scrivere regalando a lei che ha sempre adorato leggere Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf e infine, un’ultima coda temporale, in cui Jane è ormai anziana (e la interpreta la sublime Glenda Jackson) e riceve l’ennesimo premio per il libro da poco pubblicato. La storia che viene raccontata è ovviamente quella che diventerà materia del romanzo: «Scriverai questo libro sulla vita, su cosa significa vivere. Devi farlo, sarà splendido», le dice Donald. La Husson sembra aver studiato Bright Star di Jane Campion, soprattutto per l’insistenza con cui si sofferma sui dettagli, ma non riesce a riproporne il potente rigore, rimane in superficie forse dicendo troppo e realizzando un mélo eccessivamente costruito nei suoi sbalzi temporali e che risulta calligrafico nella rappresentazione (le scene di nudo sono patinate e poco vibranti).