Su Netflix Elegia americana di Ron Howard, fra ballata privata e spaccato sociale

Un andirivieni continuo tra passato e presente, l’infanzia e la giovane età adulta, tra dolore e riscatto, nelle terre mobili fra il conflitto privato e l’eterno dream nazionale. Ron Howard, regista da sempre attratto dalle biografie individuali e collettive, in questa Elegia americana (Hillbilly Elegy)  trova ancora un’altra storia d’America così lontana, così vicina. La sceneggiatura è di Vanessa Taylor, ricavata dall’omonimo libro di J.D. Vance del 2016, diventato presto un grosso caso editoriale e politico sull’onda della vittoria di Trump, tanto da fare di questo simpatizzante repubblicano ma poco trumpiano, classe 1984 nato in Ohio, di questo hillbilly che ce l’ha fatta, un personaggio televisivo e mediatico, opinionista inseguito e seguito. Scrive Vance: «Mi identifico con i milioni di operai bianchi discendenti da scozzesi e irlandesi che non sono andati a scuola. Per questa gente la povertà è la tradizione famigliare […] Gli americani li chiamano hillbilly, redneck o white trash. Io li chiamo vicini, amici, la mia famiglia». Howard, invece, guarda altrove: la sua Elegia americana sembra più una geografia sentimentale ed emotiva, una mappa degli affetti forti e fragili e degli effetti indesiderati, una cronaca famigliare disfunzionale straordinariamente ordinaria.

 

 

Una ballata privata, un dramma mai troppo drammatico, uno spaccato sociale a misura di personaggi, delle loro storie, in un’America tra il 1997 e il 2011, tra J.D. ragazzino (Owen Asztalos) e J.D. brillante studente di legge (Gabriel Basso), tra le strade, la campagna, ospedali e università, il Kentucky, l’Ohio, Yale, tartarughe salvate e calcolatrici rubate, l’amore per una bellissima indiana (Freida Pinto) e per le donne di famiglia: la mamma ex infermiera e recidiva eroinomane interpretata da Amy Adams, la grintosa e combattiva nonna Glenn Close, la sorella maggiore Haley Bennett… Sembra interessare soprattutto questo, in fondo, al regista, prima di tutto il resto, dare un carattere a questa storia, ai legami tra i personaggi, alle parole che dicono, alle storie che conoscono o non conoscono, alle traiettorie che tracciano nel loro camminare insicuri sul tempo. Tutti. Soggetti smarriti. Che hanno smarrito, per sempre o forse no, qualcosa: il sogno, la speranza, a volte il futuro, ma che – tra archetipo e stereotipo – troveranno sempre altro. Il film attraversa sin dall’inizio il tempo, la vita e la morte, l’ingenuità di un bambino-adolescente e la consapevolezza della perdita da adulto, ma J.D. torna a casa solo poche ore da quella madre che ha amato e odiato, che ama, per poi andare nuovamente via. Il racconto di formazione è già qui. Howard dice di aver voluto realizzare questo film perché un po’ narra anche la sua storia – una famiglia che ha origini in un’America remota –, elegia di una memoria generazionale condivisa, tra ciò che è stato rimosso, ciò che è andato perduto, ciò che resta. In patria la critica ha bocciato senza appelli il film, qui da noi entusiasmi al minimo, eppure – al di là di ogni giudizio di valore – è un’opera sfacciatamente trasparente. Anche nelle sue scorciatoie narrative. Nelle sue interpretazioni che guardano all’Oscar.  Nelle sue redenzioni e omissioni prevedibili. Perché se Antonio Campos ricerca Le strade del male d’America,  Ron Howard sarà sempre interessato a quelle che riportano a casa.