Terrazze romane: I limoni d’inverno di Caterina Carone

Due terrazze romane, prospettiva di quartiere un po’ fuori dal tempo: un paio di edifici di un caseggiato sopravvissuto ai bombardamenti e circondato dalla ricostruzione del dopoguerra. Spazio a parte di una Roma introspettiva, il vuoto della strada sottostante trattenuto dai cornicioni che perimetrano le vite prospicienti di Pietro e Eleonora: lui un professore in pensione, separato di lungo corso, che abita serenamente la propria solitudine; lei la solare moglie manager di un egocentrico fotografo di fama, al quale ha sacrificato la realizzazione dei propri sogni da artista. Presenze complementari che sorgono dalla topografia urbana elaborata da Caterina Carone per I limoni d’inverno, dolce film di simmetrie esistenziali evanescenti, trovate nella dissolvenza incrociata tra la memoria di un anziano signore, destinata a svanire nell’Alzheimer, e il doloroso ricordo di una bimba morta, custodito nel rimosso di una giovane donna che senza accorgersene ha smesso di vivere. Dialogo a distanza di vaghe solitudini, recitato negli spazi di pertinenza delle rispettive esistenze: due terrazzi romani scovati in quella verità pseudoreale di quartiere che il nostro cinema conosce tanto bene, da Emmer a Di Gregorio, sino alla recente Cortellesi, passando per Scola e Moretti…

 

 

Pietro e Eleonora sono lo specchio reciproco di una abitudinaria solitudine difficile da riconoscere: una diagnosi, che non fatichiamo a comprendere, oscura lo sguardo limpido dell’uomo, illanguidendo la malinconia del tempo che trascorre tra la scrittura, le visite del giovane barista che sta avviando al diploma serale e gli incontri a Ostia con il fratello che sogna di prendere il largo su una barca. Eleonora, appena trasferitasi nell’appartamento di fronte, freme di vita inespressa all’ombra del marito e l’incontro a distanza con Pietro la aiuta a trovare la consapevolezza di sé e a ritrovare la gioia di dipingere, rinunciando a seguire il marito nell’importante trasferta newyorchese. I due, ognuno dal proprio perimetro esistenziale, intrattengono un reciproco apprendistato alla felicità: placida progressione nella gioia del trovarsi e conoscersi, che Caterina Carone descrive con piccoli gesti di una sensibilità filmica non comune nel cinema italiano: delicatezza dei controcampi cui demandare il non detto, leggerezza dei carrelli a definire piani introspettivi partendo dalla profondità dei campi, sfumati accessi narrativi nello spazio della memoria o nella zona liminare tra realtà e immaginario… Del resto, per un film come questo, che nasce dall’isolamento del doppio set parallelo offerto da due terrazze prospicienti, per poi raggiungere la simbiosi di un incontro reale e spirituale, la questione degli spazi esistenziali è centrale, definisce l’ambito drammaturgico principale in cui i protagonisti trovano la loro verità, la loro storia effettiva, il passaggio di un testimone che, in buona sostanza, è basato sul superamento del dolore, ovvero sull’accettazione della dimenticanza come tabula rasa della sofferenza: imparare a dimenticare per accettare (col Tolstoj di Guerra e pace) la possibilità di essere felici…

 

 

La delicatezza di questo film è la delicatezza di una regista che procede per accenni, fiduciosa nella sensibilità dello spettatore, nell’intelligenza di una narrazione che non dice ma sviluppa, non mostra ma osserva. Caterina Carone fa un cinema in sottrazione, verseggia facendo prosa e trovando il lirismo nel gioco minimale: I limoni d’inverno non è un film sui sentimenti, è un film di sentimenti, li osserva come una cosa vera, non come una strategia narrativa. Li utilizza come una possibilità del dire la vita dei suoi personaggi al di là della loro narrazione: Pietro e Eleonora come Carlo e la Valentina Postika in attesa di partire del documentario con cui Caterina Carone aveva vinto nel 2009 al Torino Film Festival. Come in Fräulein, la regista ha voluto sul suo set la presenza pregnante di Christian De Sica, sempre svestito dell’abito commediale e affidato all’aura malinconica di una vitalità residuale: capelli bianchi all’indietro come fosse Vittorio (che del resto cantava Libero Bovio: “Signorinella pallida, dolce dirimpettaia del quinto piano”…), Christian De Sica tiene con sensibilità il perimetro del suo personaggio e lo offre alla magnifica vitalità di Teresa Saponangelo, capace di tradurre in sospensione tutta l’energia di cui sa essere capace.