

Widows aderisce a molti canoni degli heist movies (la banda da organizzare, la rapina da pianificare, gli ostacoli da evitare) guardando però ad altro e perdendo spesso di vista le regole dell’entertainment. Perché McQueen non declina nessuna velleità autoriale, non rinuncia alle sottotrame di presunto impegno socio-politico, impasta e confonde il filo narrativo con molte – troppe – deviazioni. Tutte le backstory delle protagoniste sono intrise di un paternalismo che si vorrebbe femminista: alla borghese di colore Veronica si uniscono la latina Linda (Michelle Rodriguez) e Alice (Elizabeth Debicki), immigrata polacca malmenata dal marito. Una sorta di manifesto femminile arcobaleno che diventa una pretestuosa bandiera anti-Trump, dosata con il bilancino. Gli uomini, dal canto loro, sciorinano una litania comportamentale fatta di prevedibili soprusi, violenze, menzogne, inaffidabilità. Che siano poliziotti o politici, affettuosi o maneschi, bianchi o neri, i loro atteggiamenti sono sempre e soltanto minacciosi e prevaricatori. Un settarismo di fondo, vagamente mummificato, alimenta i caratteri togliendo problematicità ai conflitti e ossigeno al racconto. Del resto, le azioni della gang al femminile ripropongono in fondo, solo leggermente smussati, uno schema machista, rivelando l’anima posticcia e programmatica dell’intera operazione. McQueen lavora per accumulo, orgoglioso di ostentare un’autoconferita patente femminista per raccontare una storia a cui non riesce nessuna giravolta di genere, nessuna sorpresa, nessun reale ribaltamento dei ruoli. Le donne di Widows, semplicemente, dimostrano di “avere le palle”, rientrando presto nei ranghi di un immaginario tipicamente e
palesemente maschile, senza mai costruire un reale antagonismo, un ruolo nel mondo capace di essere “altro”. Il film si diluisce quindi senza costrutto, perdendosi in rivoli arruffati: il blocco narrativo sulla corruzione politica tramandata di padre in figlio, rappresentata dalla coppia Robert Duvall-Colin Farrell e osteggiata dal bisogno/aspirazione della comunità nera di maneggiare il potere (i fratelli criminali-imprenditori- wannabe consiglieri comunali interpretati da Brian Tyree Henry e Daniel Kaluuya), è confuso e irrisolto; i riferimenti alla violenza della polizia sulla gioventù di colore si limitano a essere un francobollo inserito a forza nel contesto del film, quasi a ribadire l’engagement pseudo-militante ereditato da 12 anni schiavo; i tentativi di dare anima al contesto – una Chicago brutta, sporca e cattiva – si fiaccano con descrizioni stereotipate. Non basta, d’altro canto, insistere su superfici traslucide e specchi (trucco stilistico abusato già in Shame) per dare profondità a personaggi troppo spessi ridotti a pura funzione, figurine meccaniche di un quadro generale fin troppo pretestuoso. Widows non sceglie una direzione (o, meglio, ne sceglie troppe) e finisce per essere deludente sia, per troppa ambizione, come film d’azione, sia, per carenza di ispirazione, come affresco di una società maschilista arrogante ma in debito di ossigeno: lo sguardo maschile, in fondo, non risulta meno ingombrante con la sola pretesa di abbracciare un punto di vista differente.

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