Lacci di Daniele Luchetti e la manipolazione del pensiero famigliare

Il film che ha aperto (fuori concorso) la 77esima Mostra del Cinema di Venezia, Lacci è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 2014, scritto da Domenico Starnone, autore della sceneggiatura insieme a Francesco Piccolo e allo stesso regista Daniele Luchetti, che non è nuovo a storie famigliari, intime, viste da un punto di vista “compromesso” dalle dinamiche relazionali, interno soggettivo e chirurgico nella sua precisione. Una coppia come tante, immatura ed egoista, vive nella calda Napoli degli anni Ottanta. Lui, critico letterario compiaciuto e vanesio (Luigi Lo Cascio), lei (Alba Rohrwacher) moglie e madre eccessiva e melodrammatica, che lega e scioglie i nodi dei suoi stessi rapporti famigliari con incredible crudeltà. Quando lui le confessa di averla tradita e se ne va dalla giovane amante, lei si ribella, tenta il suicidio, recrimina rumorosamente, si serve dei figli per dimostrare le sue teorie, che altro non sono se non trucchetti psicologici per stringere quei lacci, che compaiono fin dal titolo e intessono le trame del film, camuffati da torti e ragioni, sensi di colpa, sentimenti, discussioni senza via d’uscita. Luchetti osserva tutto da vicino, con la lucidità di chi ha ben presente la strada e conosce tutti i détour possibili. Come sempre, si dedica ai suoi personaggi cercando di instaurare con essi un rapporto esclusivo, definendoli ognuno nelle loro caratteristiche più intime, capace di renderli reali e imperfetti in ogni contraddizione. Il suo progetto si svela lentamente, attraverso lo studio attento di meccanismi iperbolici. Come fosse una ricerca sociologica sulla manipolazione del pensiero, con le piccole bugie che diventano ricordi e condizionano una vita intera. Le scarpe, appunto, che il piccolo di casa crede di aver imparato ad allacciarsi imitando il padre. Anche se non è possibile perché lui è andato via di casa troppo presto. Prima mistificazione, o forse l’ultima che getta luce su tutte le altre.

 

 

Trent’anni dopo ritroviamo Aldo e Vanda (Silvio Orlando e Laura Morante) sempre legati e più disincantati, in una casa piena di libri e di evidenti stratificazioni, ancora ad irritarsi a vicenda, a ferirsi a ritmo continuato. Ma questo ritorno al futuro è costruito dal regista de Il portaborse come in uno specchio deformante, necessario proprio per rimettere a posto i pezzi del passato, a dare forma compiuta a strade apparentemente senza uscita. Tutto procede come in una sorta di competizione tra quello che è stato e quello che ci viene svelato pezzo dopo pezzo. I cocci di un appartamento devastato dai vandali, da cui emergono le verità tenute tra parentesi o chiuse/nascoste in una scatola impossibile da aprire. Emerge la rabbia dei figli spettatori, sempre dentro e fuori l’inquadratura a seconda delle necessità di un copione da recitare. Non è un caso che nel montaggio di Lacci stia il segno più forte e più incisivo. Il gesto stesso del creare raccordi imprevisti e liberi e raccontare la storia essenziale e crudele di una famiglia ordinaria a partire dalla fine stessa di quella famiglia, nonostante le riappacificazioni, le vacanze, la reciproca sopportanzione. Tutto è crollato tempo addietro e quello che vediamo è solo il  suo continuo ripensamento.