Finalmente l’alba di Saverio Costanzo fra educazione sentimentale e disillusione

Roma, primavera 1953. Mimosa, ragazza semplice e sognatrice, riluttante promessa sposa di un poliziotto campano, accompagna per un provino a Cinecittà la sorella maggiore, più bella e spigliata di lei. Mentre quest’ultima viene scritturata per fare la comparsa, Mimosa vagabonda tra i set e finisce per catturare l’attenzione di una capricciosa diva statunitense, Josephine Esperanto, che rimane colpita dalla profondità (dalla purezza?) del suo sguardo e la pretende accanto a sé come un talismano mentre gira la sequenza conclusiva di un kolossal in costume. A fine giornata, la star, il suo boy-friend Sean Lockwood (attore emergente e insicuro, che fatica ad uscire dal cono d’ombra della fidanzata) e un gallerista americano che vive nella capitale, Rufus Priori, danno un passaggio alla ragazza, invitandola a cena e poi a una festa. Comincia cosi un viaggio nella lunga notte romana, in cui Mimosa incontrerà personaggi che aveva visto solo sulle riviste o al cinema, finirà catapultata dentro un universo animato da narcisismi e rivalità, vezzi e insensibilità, ma anche da una sete di vita senz’altro contagiosa; vivrà situazioni che la condurranno dall’incanto per un ambiente che a una visione superficiale appare fiabesco, alla disillusione di fronte alla realtà che impone brutalmente le proprie leggi; si perderà e si ritroverà, per perdersi ancora e infine ritrovarsi, ma con altra consapevolezza. Come sempre, infatti, la notte finisce, arriva l’alba e con essa la promessa di un nuovo giorno, nel quale anche una leonessa che ha rotto la propria gabbia può passeggiare sovrana in una Roma semideserta.

 

 

Finalmente l’alba (in Concorso a Venezia80) ha dimensioni decisamente “colossali” per le abitudini italiane, essendo costato quasi 30 milioni di euro. Comincia in un cinema, esplicitando semmai ce ne fosse bisogno l’oggetto dell’amore della protagonista, che non casualmente coincide con quello del regista; tanto che il discorso amoroso che ne deriva è percorso da una fascinazione che quest’ultimo esprime per interposta persona, perché così recupera una genuinità di sguardo che personalmente non ha più. Ma poi si sviluppa nell’opulenta Cinecittà dei primi anni Cinquanta, quando la cronaca (nera) del tempo mise a referto il “delitto Montesi”, di cui fu vittima una giovane aspirante attrice (Wilma Montesi, appunto), finita nel tritacarne del sottobosco mondano capitolino e ritrovata senza vita sulla spiaggia di Capocotta, nei pressi di una villa in cui si organizzavano festini di ogni genere. Le indagini sul crimine, che coinvolsero indirettamente personaggi dello spettacolo e della politica, rivelarono la squallida facciata posteriore di un mondo che imitava con buona approssimazione la luccicante Hollywood, ostentando lo stesso sfarzo, ma con qualche pezza in più sul sedere. Alle prese con il suo film più ambizioso, Costanzo sceglie di non affrontare direttamente la vicenda Montesi, ma di costruire una storia che viaggia in parallelo rispetto a quella. Le ragioni sono esplicitate nelle note di regia e sono state ribadite dall’autore dopo la presentazione al Lido, in concorso: «Inizialmente volevo scrivere un film sull’omicidio Montesi, un evento che rappresentò per l’Italia il primo caso di assassinio mediatico. La stampa speculò sulla vicenda, che coinvolgeva personalità della politica dello spettacolo. Nacque un’ossessione che presto diventò indifferenza. La vittima scomparve dalle cronache per fare posto alla passerella dei carnefici. Poi, come accade spesso scrivendo, l’idea è cambiata e piuttosto che far morire un’innocente, ne ho cercato il riscatto. Mi piace pensare che Finalmente l’alba sia un film sul riscatto dei semplici, degli ingenui, di chi è ancora capace di guardare il mondo con stupore».

 

 

Se le intenzioni di Costanzo sono chiarissime sulla carta, lo svolgimento non è del tutto all’altezza delle ambizioni di partenza. E questo, nonostante che la messa in scena sia sontuosa, capace di restituire con buona approssimazione l’atmosfera di un’epoca e di un contesto precisi; e che Rebecca Antonaci, l’attrice che incarna Mimosa – baricentro narrativo ed emotivo del film – sia una boccata d’aria fresca, in grado di restituire lo stupore di tante prime volte.
Se la parte iniziale è convincente e il finale si fa apprezzare per sobrietà, prima di scivolare in un sottofinale che enfatizza troppo e disorienta sul piano dei simboli (la belva come esemplificazione concreta di una città che può sbranarti in una notte o come simbolo di una libertà riconquistata e fiera?), ciò che funziona meno è la tenuta sulla distanza. Anche perché il rimando principe (accanto a citazioni puntuali da Visconti, e più vaghe da Scola e Scorsese) quello alla felliniana “dolce vita”, che percorre tutto l’arco narrativo, sconta una differenza evidente già in partenza, con l’età, la condizione sociale e la stessa situazione famigliare di Mimosa che rendono più marcata la struttura da coming of age, delimitando di riflesso il campo, togliendo fluidità e variabili alla narrazione. È invece operazione fine a se stessa, ma gustosa, quella di cercare un riferimento puntuale per la diva Josephine, interpretata (bene) da Lily James: Liz Taylor, quasi certamente; ma fisicamente non è da scartare nemmeno Rita Hayworth, anche perché è difficile vedere nello spasimante giuggiolone che pende dalle labbra della donna, qualcosa del tenebroso Richard Burton.

 

 

Semmai sorprende che proprio a tale personaggio il regista conceda ben due guizzi che sembrerebbero estranei alle sue corde, prima di riconsegnarlo alla mediocrità: è lui, infatti, a ribaltare il risultato di un’imbarazzata “scena muta” di Mimosa, trasformandola in trionfo, quando nella villa di Ugo Montagna ella viene perfidamente gettata in pasto alla platea dalla Esperanto (infuriata e gelosa)l che la indica come una talentuosa poetessa svedese; ed è ancora lui, in versione cavaliere senza macchia e senza paura, a salvarla dalle grinfie di un orco a cui il padrone di casa l’avrebbe volentieri consegnata. Sta di fatto che il film (dedicato al padre Maurizio, scomparso lo scorso febbraio) perde compattezza man mano che procede, si disunisce, soprattutto accumulando personaggi che non lasciano il segno nella storia. Come Alida Valli, che appare in compagnia dell’amante Piero Piccioni, musicista di famiglia potente, che in un primo momento fu indagato nell’istruttoria del caso Montesi: a interpretarla c’è Alba Rohrwacher (e verrebbe da dire: finalmente l’Alba!). E non stupisce tanto il fatto che Costanzo abbia optato per la sua compagna a dispetto di una distanza fisica enorme dalla diva istriana “con gli occhi più belli del mondo”, volutamente non compensata dall’impiego del trucco (quegli occhi, quello sguardo, sono irriproducibili), quanto che una volta scelta non la valorizzi, relegando una delle migliori attrici del nostro cinema a pochi minuti insipidi. L’amore di Costanzo per il cinema di è autentico, come ha dimostrato in prove più riuscite (Private, Hungry Hearts, nelle serie tv): qui lo manifesta con ancora più passione, ma ciò non basta a esaltare il film.