Anatomia del dolore: Sarah joue un loup-garou folgorante esordio di Katharina Wyss

Come un graffio sulla pelle, l’adolescenza fa male quando la tocchi. Più o meno l’effetto che fa Sarah joue un loup-garou, folgorante opera prima della svizzera Katharina Wyss, offerta dalla Settimana della Critica a Venezia 74: schegge di un disagio adolescenziale implose nel corpo e nello spirito turbati di una ragazza diciassettenne. Sarah vibra di emozioni dissociate e di pulsioni scomposte, come fosse un angelo caduto dalle pagine di Georges Bataille, innocente nella sua inespressa perversione. In casa Sarah si dibatte tra un padre intellettuale, che ne occupa la mente e anche il corpo con la sua intransitiva voracità, e una madre inebetita da una serenità imposta a se stessa. Intanto soffre la lontananza del fratello, che ha preso la strada della libertà, e mal sopporta la sorellina in cerca di attenzioni che non riceve. L’alternativa è il corso di recitazione che sta seguendo, spazio performativo estremo in cui l’insegnante spinge lei e gli altri allievi a mettersi totalmente alla prova. L’esito è un urlo chiuso nel suo spirito, che occupa l’intera struttura del film della Wyss, scomposta in una trattazione visionaria degli elementi narrativi, incapsulata in una sorta di mosaico dadaista che lascia schiantare gli elementi percettivi, la costruzione dei quadri, la successione degli eventi. Tra la scena del laboratorio teatrale e gli interni domestici, Sarah è un animale ferito che sbatte contro pareti invisibili: il rapporto vita/morte, come pure quello verità/menzogna, non le risulta alternativo, ma coincidente, s’inventa per amici e compagni fidanzati morti e fratelli suicidi, gonfia nel petto dolori che non possiede ma che la straziano ugualmente, incarna un sentimento estremo che traduce le emozioni in atti scomposti, ferite inferte, torture subite.

La morte che dice di volere è solo il controcampo del suo vivere l’assenza spirituale in cui si dimena. Non sono ben chiare le ragioni del suo turbamento, sembrano piuttosto il verso di una poesia cacofonica, o la formulazione filosofica di un corpo attraversato da pulsioni incomprese. La Wyss è regista perversa e coraggiosa nel suo disarticolare il senso elementare delle cose nella messa in scena, la natura dei personaggi, la materia delle azioni: il padre è una sorta di vampiro che succhia la vita, la madre una fata senza più magia, il fratello lo spettro invisibile di un altrove irraggiungibile, il teatro la mera implosione del suo dolore in un grumo di finzione che corrisponde al massimo di menzogna, ovvero al sommo grado di verità. Il taglio netto e scomposto delle inquadrature, in cui spazi e figure sono particolari colti da un’attenzione che mira ad altro, potrebbe far venire in mente la primissima Jane Campion, se non fosse che la Wyss articola i cromatismi nelle tonalità di un romanticismo geometrizzato (la regista cita pittori svizzeri come Fussli e Bocklin), L’impulso wagneriano che aleggia qua e là irrompe in scoppi di potenza emotiva che spiazzano. Il film lascia il segno in profondità, ruvido ma anche nitido, lampante ed evocativo, affascinante eppure perturbante. Un horror senza orrore, che isterizza la messa in scena per scandagliare l’anatomia del disagio e l’ontologia del dolore.