“Bello”, “brutto”, “montato male”, “i buchi di sceneggiatura”, “la povertà degli effetti speciali”. A questo sembra essersi ridotta la capacità di attenzione dei critici sbattuti, in questo Festival appena inaugurato, di fronte a film più o meno riusciti, più o meno interessanti, più o meno alle prese con un vero corpo a corpo con il senso del cinema – dell’immagine – dei giorni nostri. E invece. Invece avremmo tutti il dovere, se non supportato da un senso del limite almeno da quello della dignità, di riflettere sulla visione atipica, sul senso non comune di un film come Megalopolis (in Concorso a Cannes 77), l’ultima – in senso probabilmente e tragicamente stretto – opera funeraria e libera di Francis Ford Coppola. Già solo abbozzare una sinossi potrebbe rivelarsi un’operazione vertiginosa. In una nuova e ipotizzata società neoromana, che del senso imperiale ha mantenuto solo la grandeur, a New Rome – una New York deformata e adattata per aderire alle derive classico-shakespeariane del racconto, si mettono in lotta – come in una rilettura umanista di un immaginario à la Marvel tanto in voga fino a pochi istanti fa – forze contrastanti. Quelle forze di potere che, in fondo, sono sempre le stesse: il terragno sindaco Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito, metà Sinatra e metà Cicerone, populismo diviso tra fascino e forza persuasiva), il banchiere Hamilton Crassus III (un luciferino e divertito Jon Voight), la cui ricchezza in costante divenire è un continuo sottopancia delle dirette televisive, l’architetto utopista Cesar Catilina (nomen omen: potere e ribellione nello stesso identico momento, impersonato da un magnetico e trattenuto Adam Driver) che ipotizza un futuro diverso per la città – e per l’umanità tutta – basandosi su una sua invenzione, il Megalon, materiale capace di una mutevolezza naturale tale da rendere più armonico il futuro dell’intera collettività.
In Megalopolis si mette in scena la lotta furibonda per il potere (con le trame delinquenziali del geloso e mai sazio Clodio di Shia LaBeouf), la satira verso il mondo dell’informazione succube e allo stesso tempo manipolatrice (la Wow Platinum di Aubrey Plaza), l’impostura dei simboli artistici a grande diffusione popolare (la virginale Vesta Sweetwater di Grace VanderWaal, sospesa tra il culto collettivo e lo sputtanamento social). Al centro di questo mondo in fermento e in continua fuga autodistruttiva nasce l’amore tra Catilina e Julia, la figlia del sindaco (la splendida Nathalie Emmanuel) che potrebbe da una parte far esplodere le tensioni centripete dei vari fattori sociali e dall’altra lasciare spazio a un’ipotesi costruttiva di una realtà pronta a rifugiarsi in un familismo utopico che guarda al bene comune. Ecco: raccontare la trama di Megalopolis è un altro sforzo inutile. Per questo progetto inseguito da più di quarant’anni, Coppola non crea uno storyboard, non si attiene alle regole d’ingaggio del cinema sfiatato a cui siamo abituati (e infatti il film se lo è dovuto produrre da solo, vendendo vigne e proprietà), non titilla i gusti del pubblico di oggi (e nemmeno della critica regina della contemporaneità, così oscurata dalla propria ombra da non avere la forza neanche di aprire semplicemente gli occhi), non guarda né al passato né al futuro perché passato e futuro sono semplici, si fa per dire, variabili del tempo. Il “tempo”, sì, trattato e messo in gioco come fosse invece uno “spazio” cinematografico, da controllare e sospendere a proprio piacimento, a rischio di perdere tutto ciò che si possiede.
Ma la teoria e l’attualità – dall’immaginifico futuro eco-familiare alla cronaca sublimata dell’assalto a Capitol Hill – si diluiscono in una visione mai solo politica, mai solo linguistica. Coppola rilancia un’ultima utopia, che è l’utopia di un cinema che sappia riflettere e digerire la realtà, la possa superare e sublimare, la possa in qualche modo plasmare: il cinema come forma distillata di epistemologia. Insomma: una cosa preziosa. Uno slancio di fiducia, di testardaggine, di speranza che impone a un regista come Coppola, che non ha certo più niente da spiegare né da provare, una posizione di continuo rilancio, contro tutto e contro tutti, con lo spirito avanguardista che da sempre lo ha animato. Ne riparleremo tra anni, come avvenuto per il flop ormai quasi simbolico di Un sogno lungo un giorno, con buona pace di chi vuole anticipare una lapide creativa solo per relazionarla con l’insensibile cortezza del proprio sguardo.