Il punto focale è la fragilità, che può essere declinata in debolezza, paura, insicurezza. La fragilità degli indifesi, degli inermi… Vecchia sindrome svizzera, vien da dire, drammatizzata nel corpo del protagonista di Goliath, l’opera seconda del regista zurighese Dominik Locher in Concorso a Locarno 70, in cui un giovane uomo si trova a combattere in se stesso la lotta tra Davide e Golia, tra il semplice individuo e il colosso invincibile. David ha la fragilità dei suoi vent’anni e una fidanzata, Jessy, che gli dice che sarà padre: lo sguardo perso, l’istinto di fuga, l’approccio all’aborto infine rifiutato. Nel ventre di Jessy c’è una creatura indifesa che amplifica la fragilità del giovane padre, incapace di difendere se stesso e la sua ragazza dalla violenza circostante (il buttafuori di un locale, un ubriaco in metro…). La soluzione è pompare in palestra il maschio alfa che ha in sé e farlo a furia di steroidi, iniettati sino a gonfiare il suo fisico, i muscoli, l’orgoglio e l’istinto aggressivo.
Ma la potenza e l’impotenza (anche quella sessuale, ma ovviamente non solo…) sono la doppia faccia di una medaglia che David fatica ad appuntare al petto, i muscoli ricoprono lo spirito debole di un ragazzo che la paternità costringe a diventare uomo secondo i canoni della società: lavoro, soldi, comprare una grande casa… Insomma, la parabola tracciata da Locher per il suo Goliath battezzato David è immediata, senza sfaccettature: l’irresolutezza del protagonista è marcata, evidente, una condanna che il regista gli fa scontare sino in fondo. Il rispecchiamento nella fragilità della figlia è la misura del suo dramma, che infatti proprio sul corpicino della piccola si riverserà nel didascalico finale. L’irresolutezza di David è la stessa che appartiene al film in cui si incarna, incapace di offrire vie di fuga simboliche a un dramma che sta tutto lì, in un minimalismo semplice e fragile dal quale non si scappa.