Dopo oltre 8 mila e 500 morti e più di 21mila contagiati, l’epidemia di ebola sta rallentando. L’annuncio ufficiale è arrivato all’inizio del 2015 dall’Organizzazione mondiale della sanità. Un segnale incoraggiante anche per Medici Senza Frontiere, l’organizzazione umanitaria, premio Nobel per la pace nel 1999, che non ha mai smesso di curare i casi scoppiati in Sierra Leone, Liberia e Guinea. Eppure, dopo sei mesi di emergenza portata sul tavolo delle Nazioni Unite dalla stessa presidentessa Joanne Liu, MSF sa bene che non è ancora il momento di abbassare la guardia: “Basta un solo caso di ebola perché l’epidemia continui e l’emergenza non possa dirsi finita. Qualsiasi negligenza potrebbe mettere a rischio i progressi fatti finora”. Nel frattempo, l’Oms ha autorizzato la sperimentazione di un vaccino che doveva essere pronto in questi mesi ma ha subito un ritardo a causa di alcuni effetti collaterali riscontrati in fase di test: “Prima di poter utilizzare il vaccino – ha detto alla Bbc Ripley Ballou, il capo del programma di ricerca sui vaccini della GlaxoSmithKline – abbiamo bisogno di ulteriori test sulla sua efficacia e sicurezza e non saremo pronti prima della fine del 2015. Di conseguenza, il farmaco verrà commercializzato all’inizio del 2016 e quindi non può essere considerato come una risposta all’epidemia in corso”. E se da una parte sono stati stanziati circa 150 milioni di dollari per acquistarlo e distribuirlo, dall’altra il personale di MSF continua la sua battaglia quotidiana dentro le emergenze. E non solo quelle dell’Africa occidentale. Ne parliamo con Orsola Sironi, dottoressa senza frontiere di 38 anni. Pronta a ripartire per una nuova missione dopo essere rientrata in Italia dalla Repubblica del Congo dove, tra i tanti casi, ha visto (e curato) da vicino i malati di ebola.
Come sei arrivata a Medici senza frontiere: ti sei offerta o sei stata reclutata?
C’è una selezione annuale per vedere se il tuo profilo combacia con le esigenze dell’associazione. Poi devi dare una disponibilità in termini temporali e poi ti chiamano per sottoporti i vari progetti. Ma solo quando sei pronto, parti. Io, per esempio, ci ho messo un bel po’: avevo fatto la selezione, ma la disponibilità a partire l’ho data solo un anno e mezzo dopo. Poi però quando sono partita ero pronta a un impegno a lungo termine: mi sono licenziata, ho sistemato la casa in mia assenza ed è andata bene così. Oggi posso affermare che il lavoro è diventato anche il mio modo di esprimermi.
La destinazione si può scegliere?
È una negoziazione. Sicuramente, vengono gradite la disponibilità e la flessibilità. Non ha senso fare la scelta di lavorare per un organismo umanitario e poi fare gli schizzinosi, ma chiaramente nessuno è costretto.
Cosa ricordi del tuo primo giorno con MSF?
Uno shock. Avevo già fatto un periodo in Burundi, tre anni in una missione cattolica, una struttura che esisteva da 40 anni e aveva dato un’impronta forte al territorio, modificando quello che c’era intorno. Con Medici senza frontiere, invece, è molto diverso perché devi adattarti a ciò che il contesto ti offre e conosci una realtà vera e senza filtri. Credevo di essermi preparata ma è stata dura: un Paese che per due terzi manca di tutto, dalle vie di comunicazione al sistema sanitario e ha questa geografia bellissima fatta di foresta e savana con vaste zone abbandonate a se stesse rende tutto più complicato. I primi giorni, mi sono accorta che c’erano una povertà e un bisogno molto più grandi di quanto pensassi e che dovevo stare proprio lì, nel mezzo, e adattarmi al contesto. Un aspetto che ho imparato ad apprezzare: si cerca di fare il meglio con quello che c’è, valorizzando tutto ciò che si trova in loco.
Con i colleghi come si interagisce?
Su dieci persone di MSF ho scoperto che solo due sono medici, gli altri sono indispensabili maghi della logistica. Si immagina il medico che corre da solo sul posto, invece c’è un lavoro di squadra di molte altre figure professionali che rendono possibile l’impossibile. In Congo è indispensabile arrivare in poco tempo dove c’è bisogno e rendere funzionante un ospedale dove prima non c’era nulla. Il lavoro di squadra è indispensabile.
Come hai vissuto l’emergenza ebola in Congo?
In Congo ebola è endemico. Un virus che c’è sempre anche perché a fare da serbatoio sono gli animali della foresta che vengono cacciati in zone isolate e precise. Per questo è uno scenario meno drammatico rispetto ad altre zone dell’Africa occidentale. La mia esperienza diretta risale ad agosto 2014, quando i capivillaggio ci avevano segnalato che a Boende, vicino all’equatore, c’erano stati molti casi di morte in seguito a febbri ed emorragie e che il contagio era rapido e da contatto (chi curava i malati moriva poco dopo). Un quadro clinico che faceva supporre la presenzadel virus. Siamo partiti in quattro: due medici,un infermiere e un logista, più alcuni accompagnatori locali in moto. Siamo arrivati, abbiamo fatto qualche prelievo ai malati, nel giro di 48 ore abbiamo avuto la conferma che fosse ebola e a quel punto si è mossa tutta la grande macchina organizzativa di MSF: nel giro di tre giorni è stato costruito sul posto un ospedale da campo con tutti i criteri dell’isolamento e abbiamo curato i malati. La tempestività è stata tutto. Alla fine ci sono stati 60 casi nell’arco di un mese. Una situazione tutto sommato sotto controllo rispetto ai numeri dell’Africa occidentale.
È vero che il veicolo principale sono i pipistrelli?
Sì, i pipistrelli sono gli unici animali che, contaminati dal virus, non si ammalano. Sono il cosiddetto “serbatoio”. A loro volta i pipistrelli possono contaminare frutti, alberi, altri animali e uomini,facendo da vettore.
Come sono i rapporti con i pazienti in queste situazioni di emergenza?
Dipende dal progetto. In Congo c’è un pool di emergenza che ha come mandato di arrivare dove gli altri non arrivano, anche a causa delle enormi distanze. In questo caso è difficile tenere un contatto con i malati. Con ebola c’è stata un’urgenza tale che si interveniva in totale autonomia per costruire l’ospedale da campo, curare e poi bruciare tutto prima di andare via. In altri casi, invece, l’équipe di MSF si appoggia a quanto esiste già in loco, porta con sé un apparato logistico non indifferente, si mettono a disposizione strumenti, medicinali, professionalità, si cura gratuitamente e poi, finito l’intervento, di solito dopo 8 o 10 settimane, si viene via. In questi casi c’è sicuramente più spazio per instaurare relazioni.
Cosa ti attende in Repubblica Centroafricana?
Ora mi aspetta un ospedale in un campo profughi con un organico tutto di MSF e una maggioranza di personale localeche ha l’obiettivo di essere un grande triage, un pronto soccorso per stabilizzare i pazienti e poi trasferirli sugli altri progetti a lungo termine che ci sono sul territorio. Per esempio si collabora con Emergency per la chirurgia, ma anche con gli ospedali del posto.
Nella tua esperienza le donne hanno gli stessi diritti alla cura degli uomini?
In Congo sono sicuramente svantaggiate perché culturalmente stanno a casa e non hanno la libertà di organizzarsi né la disponibilità economica per muoversi e cercare una struttura dove curarsi. È desolante vedere in quali condizioni arrivano.
Quanto ti fermerai questa volta?
Si parla di tre mesi ma perché è un progetto in chiusura, non perché si sia risolta la guerra tra cristiani e musulmani ma perché questo campo profughi potrebbe spostarsi e ci sono molte persone che hanno chiesto di tornare a casa propria. In ogni caso l’ospedale esisterà finché ci sarà il campo profughi. Se servirà andare avanti, andremo avanti. Nelle zone di conflitto si tende comunque a cambiare il personale più spesso, con regole di sicurezza molto severe. Non so ancora i tempi precisi.
Il mal d’Africa esiste anche per gli operatori umanitari?
Sì, per me esiste. Anche se si vede un’Africa dove vivi ogni giorno la frustrazione perché ti manca tutto e c’è tanta sofferenza, quando torni in Italia non vedi l’ora di ripartire. Il motivo? Al di là della natura, nel nostro caso, credo che sia l’idea di aver risposto a un bisogno fondamentale dell’uomo. Senza contare che hai più libertà di azione e ogni tua iniziativa ha più peso che altrove. È una vita in prima linea, e questo, sicuramente, se l’hai provato e lo cerchi, a un certo punto ti manca.
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M.F.