Compito assegnato: un’intervista ad Anastacia, star mondiale con 85 milioni di dischi venduti in 15 anni di carriera, e con qualche difficoltà a essere profeta in Usa, dove la concorrenza è spietata per chi cerca sempre la cresta dell’onda. Luogo: Padova, ultima tappa italiana della tournèe invernale, a gennaio, prima del passaggio in Germania e poi in Inghilterra (ma tornerà in Italia in estate).
A rendere ancora più difficile l’approccio all’evento – avvicinato con immersione totale nella produzione della cantante di Chicago, che mi ha lasciato la piacevole certezza che la sua voce merita occasioni migliori – il fatto che le collaborazioni italiane della “piccola donna bianca con la grande voce nera” sono state, a parte una agli esordi con Pavarotti, quelle con Eros Ramazzotti, Gigi D’Alessio e, più recentemente il leader dei neo-melodici Modà, Kekko Silvestre. Ad essere gentili non incontri indimenticabili. Comunque dopo averla vista live bisogna onestamente ammettere che in Anastacia Lyn Newkirk c’è sostanza, ben oltre l’immagine patinata che le hanno costruito intorno. Basterebbe il nome, addirittura, con quella “anàstasi” (in greco antico: risveglio, resurrezione) marchiata a fuoco dentro di lei, che prevede la capacità di risollevarsi una o mille volte. Per lei parlava anche la sua storia personale, fatta di sofferenza e applicazione, perché il talento sembrava non bastare mai.
Sofferenza, perché convive sin da bambina con il morbo di Crohn, infiammazione cronica che devasta l’intestino. E che certo non è migliorata né con le diete a base di fibre imposta dagli impresari che l’assumevano come ballerina per snellirne le forme rotondette, né con quella incentrata sui croissant avanzati nel forno in cui lavorava per tirare avanti (lei, fratelli e madre) in attesa di un ingaggio come corista nel sottobosco artistico newyorkese.
Applicazione, perché ha cercato ostinatamente di migliorarsi giorno per giorno, ballando, cantando, recitando. Come faceva fin da piccola, quando per scaldare le serate dell’Illinois prima e quelle di Manhattan poi, improvvisava sulle note di Elton John o imitava Barbra Streisand per il divertimento dei familiari. Vicende tutt’altro che desuete, con variazioni minime, nelle biografie conosciute di molte stelle del cinema e della musica. Vero, se non fosse che per Anastacia sembrava non arrivare mai il momento, non esserci davvero mai uno spazio tutto suo, nonostante la voce. Anzi, forse a causa della voce: troppo potente, troppo nera per una bianca, troppo. Una cantante che, per di più, non voleva nemmeno dedicarsi all’hip hop, con il quale forse un angolino se lo sarebbe ritagliato.
Niente da fare: lei l’hip hop lo schifa e nemmeno le piace particolarmente il pop. Ha in mente il soul, ama il rock. E quindi resta al palo. A un certo punto, è il 1998, le dicono che è troppo vecchia per sfondare: quel singolo che ha per le mani, I’m Outta Love, non è niente male, ma a trent’anni nell’America dello star system non vai più da nessuna parte. Eppure Anastacia non molla. E ha ragione: quel brano la fa volare in classifica e le regala un palcoscenico mondiale che, dopo quindici anni e un cancro al seno con recidiva, non ha ancora abbandonato perché, mi dice, “suonare dal vivo è l’essenza della mia professione. Stare sul palco, a contatto con la gente, con il pubblico che è lì per me, condividere la mia musica: vivo per quel momento!”.
Sulle collaborazioni (che ci posso fare: mi sono rimaste sul gozzo come una lisca di pesce) la risposta è tanto politicamente ineccepibile quanto volutamente banale: “Sono stati tutti incontri eccezionali, perché ciascuno di questi cantanti ha qualcosa di unico. Certo, l’esperienza con Big Luciano è stata preziosa”. Sul ruolo della famiglia, una famiglia di artisti, nella sua formazione, la gratitudine (per loro) è manifesta: “Un ruolo fondamentale. In casa, con mamma attrice a Broadway e papà cantante, io e i miei fratelli cantavamo e recitavamo in continuazione. Eravamo talmente abituati ad esibirci tra di noi, che posso dire di essermi preparata in anticipo alle luci della ribalta…” Le ricordo come sia noto che da teenager coltivava una passione per Elton John e per Barbra Streisand: “Beh, in principio sono stati questi gli artisti che mi hanno influenzata. Li avevo interpretati tante volte che erano ormai di casa. Poi è venuto il momento di Aretha Franklin e Tina Turner, due cantanti immense. Ora ascolto di tutto, e non faccio distinzioni tra vecchie e nuove generazioni. Per esempio, mi piacciono Pink, Taylor Swift, Florence and The Machine, Ed Sheeran, Il Volo e tanti altri. Ma se davvero dovessi dire tutti i colleghi che ascolto e che ammiro non basterebbe il tempo…sono davvero troppi da elencare!”.
Sulla definizione di ‘regina dello sprock’(acronimo efficacissimo, anche se in italiano suona un po’ gutturale, che significa: soul nella voce, pop nei testi e rock nel sound): “Mi ci si riconosco “Sempre!!! E’ perfetta per me”. Nel 2012 ha inciso It’s A Man’s World, un album rock con cover di soli artisti uomini….e che artisti: Led Zeppelin, Guns N’Roses, U2, Aerosmith, Foo Fighters, AC/DC, Rolling Stones. E anche nel tour mondiale in corso sceglie spesso di eseguire almeno un paio di brani di quel disco anche se da qualcuno è stato percepito come una sfida decisa al potere maschio e non come un omaggio al meglio della scena mondiale degli ultimi quarant’anni:“Lo so: è un album che ha venduto meno degli altri che ho fatto e quindi è accompagnato da chiacchiere e commenti, molti fuori luogo. Inoltre non ha ricevuto solo critiche positive, anzi…Ma sarò sincera: lo volevo fare da tempo, per amore di alcune canzoni. E’ la volontà di cantarle che mi ha spinto ad inciderlo… Poi, se qualcuno ha voluto vederci dell’altro, tipo che una donna ha osato provare brani resi leggendari da maschi, o se addirittura c’è chi ritiene che quei pezzi fossero intoccabili, beh…quello è un problema suo! Una cosa è certa: io amo il rock, e mi è piaciuto tantissimo incidere quel disco. Lo rifarei senza problemi”. Infine sul suo ultimo album, Resurrection, il primo di inediti dopo sei anni, ha le idee precise“Sono contenta di come è riuscito, perché ci ho messo dentro la mia vita. Ogni canzone è una storia che nasce da una mia esperienza personale, e nello stesso tempo vuole essere un messaggio per chi la ascolta: vorrei che ci trovasse delle cose buone. Ci ho aggiunto pathos, certo…ci ho messo un po’ di fiction, come sempre quando voglio raccontare qualcosa che catturi l’attenzione…ma ritengo di averlo fatto e di farlo sempre con onestà. Penso che sia questo il modo migliore per costruire una canzone. Anche se poi, almeno per me, conta molto anche il lavoro di squadra, la possibilità di confrontarmi con i miei collaboratori. Il risultato finale è sempre il frutto di un lavoro collettivo”.