La scorsa estate in Francia, una piccola e attenta casa editrice come Au Diable Vauvert ha fatto uscire Le liseur du 6h27, romanzo dell’esordiente Jean-Paul Didierlaurent. In brevissimo tempo il libro è divenuto un caso conquistando schiere di lettori. Il protagonista è Guylain Vignolles, un attonito testimone dei nostri tempi, una sorta di nipote putativo di Tati che ama la lettura. Per colmo di sfortuna gli tocca lavorare in una fabbrica di riciclaggio che tritura libri invenduti. Ogni giorno dalla Cosa, la vorace macchina che distrugge i volumi, salva una dozzina di pagine che ha preso l’abitudine di leggere ad alta voce sul treno delle 6 e 27. Poi una mattina sul vagone trova una chiavetta USB rosso granata che contiene il diario di una ragazza: 72 file scritti da Julie, addetta ai bagni di un centro commerciale. Ipnotizzato, Guylain cade sotto l’incantesimo delle parole scritte dalla giovane. Che, va trovata, conosciuta, amata… Fantasiosamente poetico, il romanzo che esce il 12 febbraio per Rizzoli (pag.192 euro 15) con il titolo Un amore di carta seduce con l’esaltazione dell’atto della lettura fine a se stesso e con un interrogarsi sulla transizione fra carta e supporti digitali tutt’altro che scontato.
Qui un estratto sulla sinistra Cosa (Carpenter approverebbe) in azione:
La Cosa aveva fame. Con il braccio,Guylain invitò il primo camion a posizionarsi con il culo davanti alla banchina di scarico. Il trentotto tonnellate manovrò scalpitando con tutti i suoi cavalli e inclinò il cassone. La valanga di libri si riversò sul cemento in una nuvola di polvere grigia. Seduto ai comandi del bulldozer, fremente d’impazienza, Brunner entrò in azione. Dietro il parabrezza sudicio, i suoi occhi brillavano di eccitazione. L’enorme lama spazzò via la montagna di volumi precipitandola nel nulla. L’inox dello scaricatore scomparve sotto il fiume di libri. Le prime infornate erano sempre delicate. La Zerstor era un’orchessa e aveva i suoi umori. A volte capitava che si intasasse, vittima della sua stessa voracità. Allora si spegneva stupidamente in piena masticazione, le fauci ricolme fino all’orlo. E ci voleva quasi un’ora per svuotare l’imbuto, liberare i cilindri dai troppi libri già prigionieri dei martelli, disintasare a uno a uno gli ingranaggi e riavviare la pompa. Per Guylain significava stare un’ora a contorcersi dentro quelle viscere puzzolenti, a sudare tutta l’acqua che aveva in corpo sotto le invettive di un Kowalski in quei momenti più nervoso che mai. Quel mattino la Cosa si era svegliata col pistone giusto. Ghermì e ingoiò la sua prima razione d’opere senza l’ombra di un singulto. I martelli, troppo felici di avere qualcos’altro da addentare oltre al vuoto, fecero gozzoviglie. Perfino i dorsi più nobili, le rilegature più solide, si ritrovarono triturati in pochi secondi. I volumi sparirono a migliaia nella pancia della Cosa. La pioggia bollente che i condotti sputavano senza sosta da una parte e dall’altra del buco costringeva verso il fondo dell’imbuto i rari fogli vaganti che tentavano la fuga. Più in là, entrarono in azione i seicento coltelli. Le lame affilate ridussero in striscioline sottili ciò che restava dei fogli di carta. Le quattro grandi impastatrici finirono il lavoro trasformando il tutto in una densa melassa. Dei libri che ancora qualche minuto prima giacevano sul pavimento del capannone non restò traccia. Solo quel pastone grigiastro che la Cosa espelleva alle proprie spalle sotto forma di grossi escrementi fumanti che cadevano nelle vasche producendo rumori umidi e disgustosi. Quel grezzo impasto di carta un giorno sarebbe servito a fabbricare altri libri, di cui un certo numero avrebbe fatalmente fatto ritorno lì, tra le mandibole della Zerstor 500. La Cosa era un’aberrazione che mangiava la propria merda con un’ingordigia abietta. Spesso, alla vista di quel fango denso che la macchina cacava senza posa, Guylain ripensava alla frase che il vecchio Giuseppe gli aveva tirato fuori dall’alto dei suoi tre grammi qualche giorno prima della disgrazia: «Non dimenticartelo mai, ragazzo: noi stiamo all’edizione come il buco del culo sta alla digestione, nient’altro!». Un secondo camion stava già scaricando il cassone. La Cosa liberò dalle fauci spalancate una raffica di rutti acidi, azzannando il vuoto con tutti i martelli. Alcune pagine stracciate e zuppe, ultimi avanzi del pasto precedente, penzolavano tra gli ingranaggi come volgari lembi di pelle. A grandi e rabbiosi colpi d’acceleratore, Brunnerpartì all’assalto della nuova montagna di libri, con la lingua che spuntava all’angolo della bocca.
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