Potrebbe non finire mai Birdman. Potrebbe essere/diventare un labirinto senza uscita, un mondo parallelo, ma non virtuale, che scorre in libera esecuzione. La giostra iperbolica di ognuno di noi, strattonato di continuo dagli imprevisti e dall’imperfezione, messo alla prova dalle incongruenze e dai conti che non tornano. Tra ambizione e realtà.
Alejandro Gonzalez Iñárritu, sceglie, però, di non mediare e descrive la vita di un attore condensandola in un unico momento. Come se fosse un solo respiro, una sola scena, una battuta definitiva da declamare e poi sparire. Questo pare essere il tentativo fallito di Riggan Thompson, attore divenuto famoso grazie a un supereroe mascherato e alato, che, per cambiare pelle, vuole mettere in scena a Broadway un adattamento dell’opera più famosa di Raymond Carver: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Siamo a pochi giorni dalla prima, si deve cambiare un attore infortunato e si inizia a temere il giudizio della più temibile critica teatrale. Dietro le quinte il caos è sovrano e le prove sono continuamente interrotte da sospette intromissioni. Nesssuno che sappia tenere separati il privato e il teatro. Anzi. Si ha l’impressione che tra i camerini e i corridoi, sul tetto e tra i vicoli si sia insinuato qualcosa di indicibile, uno sguardo dissonante che disturba e rende tutto più paradossale. Filmato in soggettiva, come un’interminabile piano-sequenza, all’inseguimento di attori ansiosi di salire sul palco e riscattare in qualche modo le proprie frustrazioni, eppure terrorizati proprio dal palco. Un film di attesa, ma sempre in bilico su un cornicione. Si può cadere da un momento all’altro, anzi, si cade in continuazione, ma poi l’inquietudine sommessa riprende ad aggirarsi e l’esplosione è rinviata.
Via via, però, tutto si amplifica e si complica, l’aria si fa nervosa e frenetica. Non solo per il continuo movimento dei piani sequenza montati in successione inestricabile, ma perché, di fatto, la costruzione narraviva pensata da Iñárritu segue un percorso a catena: ogni scena si lega a quella precedente e a quella successiva a più livelli, nella relazione tra i personaggi, nello svelamento progressivo degli spazi, nella rivelazione di passati e presenti in grado di dare sfumature nuove o più ricche. Elaborazioni in progress, aggiustamenti continui di senso che rendono questo film sufficientemente ambiguo e sfuggente, con il preciso scopo di sviare lo spettatore in una dimensione più che mai sfumata.
Il cinema che filma il “teatro nel teatro” vanta una lunga storia (si pensi a Cassavetes, Cukor, lo stesso ultmo Assayas), e le ossessioni sono sempre le stesse. Si deve far fronte a un rivale che spesso è il proprio doppio, un alter ego intenzionato a prendere il sopravvento. E il gioco di specchi tra Riggan e Birdman funziona perfettamente: l’eroe alato compare alle spalle dell’attore, si insinua nei suoi pensieri, lo spinge verso l’estremo. E poi c’è lo specchio vero e proprio attraverso il quale i due opposti dialogano rabbiosi. L’idea costante è quella di oltrepassare un limite, varcare la soglia della messa in scena (anche a questo “servono” i dodici piani-sequenza montati abilmente cancellando i tagli), sparpagliare i piani della realtà e delle finzioni, ben oltre il teatro. Ed ecco il cinema. Lo specchio/schermo che fa capolino dalla terrazza e oltre la finestra. Dove, non visto, torna ad immaginare i suoi fantasmi travestiti da supereroi. E tutto può ricominciare dall’inizio.