Il più sensuale tra i film visti recentemente. Il più fisico, nel paradosso di un cinema metafisico e di ardita ricerca visionaria. Blackhat di Michael Mann arrischia una visione invedibile e ipotizza un cinema che può finalmente prescindere dalle strutture coerenti del racconto. Il risultato è un film costruito a partire da un punto limite (quello a cui era arrivato Tron e che Avatar aveva a suo modo indicato da lontano), stabilendo nell’ubiquità dell’immagine la fine di ogni confronto 1 a 1. Si sono perse le categorie dell’opposizione, la guerra non ha più due fronti, il bene, il male hanno visto svuotato il loro significato. Ogni cosa è svincolata dalla sua fonte, smaterializzata nell’universo di numeri, pixel, virus che hanno imposto un’altra dimensione spazio-temporale.
Questo film, così radicato nel presente, ci appare però provenire da un altrove quasi indecifrabile, nel suo essere rarefatto, impalpabile e, si diceva, sensuale. Il senso prediletto è il tatto: non è ciò che si vede ma ciò che si tocca, o si sfiora, con la punta delle dita. Ma si può toccare anche solo guardando o addirittura pensando, ed è ciò che, di fatto, accade ai due protagonisti, Nick e Lien, che si incontrano sulla pista di un aeroporto e si toccano semplicemente il braccio. Il loro tempo, da questo momento, sarà duplice, i loro sguardi dialogheranno a distanza ravvicinata, mentre sotto le loro dita passeranno miliardi di informazioni, di bit organizzati in corridoi di luce, reti luminose traghettatrici di informazioni e inganni. Non c’è più neppure la parola a comunicare idee o intenzioni, ma il ritmo indiavolato dei polpastrelli sulla tastiera a disegnare mappe misteriose, che ci fanno fare il giro del mondo in pochi istanti, tra Cina, Stati Uniti, Hong Kong, Indonesia. Saltando tra il “dentro” e il “fuori”, tra guerre finanziarie e sentimenti. Il “nuovo” immateriale si sposta sulle reti virtuali che imprigionano il mondo, inseguito da elicotteri, automobili, aerei, per andare dove il tempo è già passato, a recuperare le tracce digitali da cui trarre i codici in continua mutazione.
Mentre sguardo e sensi sono completamente in balia di uno smarrimento totale, divisi tra il futuro e passato, accelerazione forzata e sospensione del tempo, Mann porta alle estreme conseguenze le sue derive, già esposte in Miami Vice, i vuoti, le dinamiche soggettive insolite in un cinema “di genere”, che vuole andare oltre, senza però rinunciare a citare le fonti, le mission impossible da cui tutto è iniziato. Procede così senza sosta la sua personale equazione: più cinema e meno film, nel senso di un lavoro progressivo di sottrazione dagli schemi narrativi (e dai generi), a vantaggio della digressione, dello sguardo che si insinua nelle derive della mente. Spazio che ha superato il concetto di mondi paralleli e contemporanei perché la velocità di movimento del virus in questa gabbia è tale da essere irraggiungibile se non con il pensiero.
Blackhat è la soggettiva libera di uno sguardo che ha imparato ad osservare dal di dentro delle cose, dentro i meccanismi informatici, dentro le scatole, dentro le menti, dentro i desideri. E non cerca di tradurli in un altro linguaggio. Semplicemente li guarda e, nel guardarli, li assimila, e trova gli errori, gli inganni, le strategie con cui si manifestano. Perché l’attacco alla centrale nucleare dell’inizio è solo un diversivo, una prova generale per far saltare altre dighe e spostare altri soldi. La fisicità di un fiume che devia il suo percorso, allora si pone sullo stesso piano di un flusso di soldi trasferiti o trasferibili in non luoghi. Anzi, la prima è necessaria affinché il secondo possa esistere. Si procede per cortocircuiti successivi, dove il massimo dell’immateriale si scontra con il massimo del dato tangibile. Ne è prova il lungo finale, lo scontro, quando nessun dispositivo elettronico entra in campo, e la sparizione dei due protagonisti fuggitivi. Prima ci si fronteggia corpo a corpo, nella folla di una cerimonia antica, con armi vere, che sanno di antico. Fine dei giochi. Il corpo ora deve tornare fantasma. I due fantasmi escono dai labirinti della cyberwar e si tuffano in quelli dell’invisibilità. Nick e Lien spariscono, così, toccandosi il braccio, nel bianco di un monitor, oltre un confine.