Un film a micro-budget e alto talento filmico. L’opera prima di Abdullah Mohammad Saad, cineasta nato nel 1985 a Chittagong ed esponente della new wave del suo paese, Il Bangladesh. Un testo ‘dipinto’ in un bianconero ‘granuloso’, che sa di sabbia, di quel grigio che lo avvolge, fino a impregnarlo fisicamente. Live from Dhaka, del 2016, fa parte degli Open Doors Screenings, la sezione del festival di Locarno che ogni anno apre le sue porte a cinematografie ‘dei mondi’, tanto a livello di progetti in via di sviluppo quanto di lavori realizzati in anni recenti recuperati per un significativo sguardo ‘retrospettivo’. Del programma di quest’anno (concentrato sull’area asiatica comprendente Afghanistan, Sri Lanka, Bangladesh, Bhutan – rappresentato anche dal notevole ‘noir buddhista’ Honeygiver Among the Dogs, lungometraggio d’esordio del 2016 della regista Dechen Roder -, Nepal, Birmania, Pakistan), Live from Dhaka è uno dei titoli più rilevanti.
Vi si narra una storia ‘semplice’, quella di un uomo, Sajjad, e una donna, Rehana, nella Dhaka contemporanea. Una coppia. Lei lavora in banca. Lui è geloso, fino a diventare violento, è braccato da spietati creditori dopo aver perso molti soldi investendo. Lei lo abbandona non sopportando più la sua ossessiva gelosia. Lui ha un unico obiettivo: emigrare in Russia, dove si trova un suo amico. Troverà invece ‘riparo’, e forse la morte, partendo illegalmente per la Malesia, senza dirle nulla. In quella Malesia meta anche di tanti suoi connazionali, terra di trafficanti e di fosse comuni, dato di macabra cronaca evocato alla fine del film da un notiziario televisivo. Ma è lo sguardo di Saad a rendere Live from Dhaka un’entusiasmante esperienza di cinema. Lo sguardo di un regista indipendente, ‘underground’, che filma dal di dentro, con camera a mano consapevole, la capitale. Strade, traffico, soste, litigi, vicoli, appartamenti, passaggi pedonali sopraelevati, sottopassaggi. A piedi o in auto. O, ancora, un battello sul fiume. Sajjad zoppica, cammina sempre appoggiandosi a una stampella, diventando, quel suo camminare zoppicante, vero e proprio segno del suo insormontabile disagio esistenziale. Scorre, dai finestrini delle macchine, di giorno e di notte, una città altrettanto inquieta, con anime perse (tra cui il fratello drogato del protagonista, che morirà di overdose) e studenti in lotta contro la polizia che reprime manifestazioni. Si disegnano soprattutto personaggi maschili alla deriva, mentre immagini ‘oniriche’ confluiscono nel quadro della sofferenza e della cattiveria composto da Saad. Non ci sono scorciatoie, i corpi sono maltrattati, picchiati, legati – viene da pensare a un manicomio in interni e esterni dove tutto si sospende, compreso talvolta il sonoro. Si creano apnee improvvise a ‘dire’ ancor più l’inabissamento ‘dostoevskiano’ rappresentato da Saad. Fino al finale del tutto inscritto nel melodramma, nella scena madre tra un uomo e una donna, Sajjad e Rehana (perfetti nei ruoli Mostafa Monwar, per la prima volta sul grande schermo dopo essere stato nel cast della serie televisiva Chabial Reunion, e l’esordiente Tasnova Tamanna) che si stanno per separare definitivamente. Ma per scelta inflessibile ed egoista di lui. A nulla serve che Rehana, in un vicolo dove il fidanzato la vede e chiama, cerchi di impedirgli la partenza, che gli riveli di essere incinta, che pianga, vomiti. Lui la scansa e se ne va. Saad rende ogni situazione credibile, ‘aggancia’ alcuni generi e li personalizza da autore ‘nouvelle vague’ da non perdere d’occhio.