Tra la terra del titolo originale (Ghostland) e la casa di quello italiano c’è uno slittamento di senso che è perfetto per inquadrare il nuovo progetto di Pascal Laugier: in fondo di casa-mondo parliamo, quella in cui si consuma il dramma di due sorelle alle prese con gli orchi che le hanno fatte prigioniere. La reazione è duplice: da una parte c’è l’escapismo di Beth, che sogna una carriera da star dell’horror letterario, inseguendo il mito di Lovecraft. Un personaggio animato da una forte volontà di affermazione, in contrasto con la stanzialità imposta da una famiglia che sembra sempre più ripiegarsi su se stessa, tanto da trasferirsi nella casa ereditata da una parente scomparsa. Dall’altro versante c’è Vera, la sorella disillusa, cinica, che però è anche quella che accetta la tragedia in corso senza alibi alcuno. Il gioco degli stereotipi è propedeutico allo sfasamento percettivo che il film insegue per tutta la sua durata e che si palesa solo a un certo punto della storia: la bruna apparentemente più forte è quella che si è rifugiata in una dimensione illusoria, mentre la “bionda in pericolo” è più netta nell’affrontare il problema. In questa torsione delle aspettative sta l’elemento più interessante con cui Pascal Laugier prosegue la sua ricognizione sulla percezione del dolore iniziata con Martyrs. In entrambi i film domina infatti una dimensione di prigionia e costrizione fisica che si estrinseca in una continua serie di punizioni cui le donne sono costrette, fino alla riduzione ad autentici marionette in mano dei cattivi di turno, ansiosi di sfruttarle per i propri scopi.
L’estetica della violenza assume pertanto una fisicità pressante, che rappresenta a un tempo la forza e il limite delle operazioni portate avanti dall’autore francese, sempre in bilico tra dimensione autoriale e fastidioso compiacimento. In questo caso si aggiunge un elemento in più, che è quello offerto dallo spazio dell’azione, capace di entrare in risonanza con la dissoluzione delle percezioni cui sono sottoposte le protagoniste. La casa-mostro diventa così un luogo labirintico, di cui lo spettatore non riesce a tracciare le coordinate, che snocciola nuovi ambienti senza soluzione di continuità, in netto contrasto all’essenzialità delle prigioni di Martyrs. La trasferta americana conferisce infatti all’horror di Laugier una dimensione ulteriore, che guarda agli spazi onirici e labirintici di un Wes Craven e all’estetica barocca di un Tobe Hooper o un Rob Zombie. Rispetto ai maestri, Laugier conduce il racconto in maniera più confusa, affastellando i livelli in un modo che può risultare stucchevole, ma riesce comunque a governare la sua dimensione horror a metà fra il brutale e il fiabesco. Di qui il corollario fornito dalle bambole e dall’imponente lavoro scenografico di Gordon Wilding, che creano un efficace pendant con la costrizione cui sono sottoposte le donne, e rappresentano anche un elemento orrorifico autosufficiente e già ben sedimentato dalla tradizione, capace perciò di far compiere al film l’ulteriore torsione: quella che da mera opera di violenze sui corpi femminili, trasfigura il tutto in una ghost-story molto più classica, giustificando anche i parallelismi letterari. I “cattivi” stessi si adeguano, assumendo così una natura spettrale, più in linea con le tendenze dell’horror attuale, mentre un montaggio e un reparto sonoro molto “muscolari” garantiscono l’inevitabile abuso di salti sulla sedia allo spettatore. Da questo versante, la sfida più interessante che il film pone è capire quanto sfrutti abilmente (e con un certo cinismo) gli stilemi cui il pubblico contemporaneo è abituato per accreditarsi presso un’utenza molto più tradizionalista che in passato; o quanto invece resti invischiato suo malgrado in meccanismi che non gli sono propri. Di certo assistere a La casa delle bambole è un’esperienza stimolante e in grado di generare una risposta tanto fisica quanto intellettuale: senza dubbio un buon merito.