Nell’Europa dell’Est, durante la Seconda guerra mondiale, un ragazzino ebreo viene lasciato dai genitori a un’anziana tutrice con la speranza di risparmiarlo dagli orrori della persecuzione. Sarà solo l’inizio di un lungo, estenuante viaggio all’interno delle parentesi più cupe e atroci cui la natura umana può tendere. Scomposto in capitoli autonomi e indipendenti, il viaggio del ragazzo viene scandito dagli incontri con le persone che condivideranno la sua strada. Ogni personaggio segnerà sempre di più l’esistenza del protagonista mettendolo alla prova (fisica ma soprattutto emotiva) in un contesto di ordinaria follia in cui la guerra ha permesso al Male di dilagare senza alcuna remora mescolandosi facilmente nella vita quotidiana mentre tutti sono impegnati a puntare il dito contro le atroci gesta che intaccano il mondo intero. Tratto dall’omonimo romanzo di Jerzy Kosinski, il taglio filmico che Václav Marhoul prova a imprimere (su pellicola, scelta non solo stilistica ma anche tematica, mirata a ricostruire la caducità e la decomposizione della materia che la guerra porta con sé) negli occhi dello spettatore è un terrificante e horrorifico mondo in bianco e nero, palcoscenico di atroci crudeltà legate alla violenza, alla sfera sessuale e al predominio fisico sulla natura. The Painted Bird (in Concorso) prova così a seguire la via crucis (letteralmente parlando) di un Messia contemporaneo, qualcuno di totalmente innocente costretto a fare i conti con l’assurdità della natura umana e a farsi carico degli atroci peccati di chi lo circonda. Eppure non c’è nessuna redenzione in fondo al percorso, anzi, è la guerra ad avere la meglio e a plasmare del tutto la coscienza e la psicologia del ragazzo.
Nulla di nuovo o particolarmente originale, sia chiaro, ma pur sempre un soggetto di partenza che potrebbe concretizzarsi in un’operazione felice e stimolante. Il problema più grave del film risiede quindi tutto nella fascinazione del Male. Tanto i personaggi in scena quanto Marhoul stesso, infatti, perdono qualsiasi senso della misura e della moralità, guidati da un presentimento di potere dominante che a lungo andare rende il lungometraggio sgradevole e insostenibile. L’eccedere di violenza, il continuo insistere sulla dinamica del dolore e la presunzione con cui alcuni personaggi vengono introdotti nel racconto per poi essere completamente abbandonati al termine del capitolo che li riguarda, rendono il film schiavo del suo stesso sguardo perverso. Se in alcuni momenti è interessante notare come la forma si adegui al contenuto per comunicare l’assurda follia in cui tergiversano le pedine del mosaico, le quasi tre ore di proiezione non sono sempre all’altezza di una simile riflessione e continuano a lavorare per accumulo anche in quei casi dove il silenzio o l’elisione avrebbero restituito con fare ancor più tragico e sentito il dramma vissuto sulla pelle dei protagonisti.