È in un clima da scampagnata fuori città con gli amici e poi durante il viaggio di ritorno della famiglia felice sulle piste del deserto che con l’ingannevole incipit il film prende il suo avvio, quando d’improvviso, il registro narrativo muta, con una secca virata come lo sparo che, perentorio e fulminante, rovescia il tavolo della serenità familiare e fa piombare la famiglia nella disperazione, con il piccolo Aziz accasciato sul sedile posteriore della Jeep con un foro nell’addome e il sangue che si mischia ai frammenti di vetro dei finestrini frantumati. La corsa in ospedale e poi la notizia della necessità di trapianto del fegato. La madre non è compatibile e l’alta incompatibilità di Fares, il padre, rivela che in effetti il piccolo Aziz non è suo figlio. Superare le leggi sulla donazione degli organi e la ricerca del fegato compatibile anche attraverso trafficanti in rapporti con la vicina Libia in fiamme, sarà la traccia di un film che si fa teso e sempre imprevedibile. Un figlio vive di una tensione che non è mai meccanica o sovrapposta, ma solo efficace conseguenza dell’azione che si svolge in pochi giorni e i cui tempi sono assolutamente credibili. Il crescendo controllato e mai sovraesposto è condensato nel tempo assolutamente canonico dei 90 minuti o poco più durante il quale trovano spazio i temi di fondo previsti dalla calibrata sceneggiatura; la sensibilità degli interpreti, a completa disposizione di una narrazione credibile, restituisce la complessità della situazione e il gioco quasi labirintico che il film propone.
È proprio l’impianto e la struttura a costituire pregevole esempio di costruzione di un inatteso thriller di ambiente familiare, che si consuma nell’ansia dell’attesa per la sopravvivenza di una vita appesa ad un filo. Sono anche i condizionamenti culturali e sociali ad impedire il libero movimento dei personaggi alla ricerca di un donatore compatibile, leggi e tradizioni dure a morire e una società essenzialmente patriarcale che non si scalfisce nemmeno davanti alle vite in pericolo. Ma Un figlio è soprattutto un film sulla rivelazione della verità, sul peso di una menzogna e su una specie di colpa femminile originaria che può essere superata solo dalla forza di volontà di Fares e soprattutto dal suo invincibile sentimento paterno, che con Aziz è stato instaurato in passato e ora resiste al di là di ogni legame di sangue. È proprio Fares il personaggio chiave della vicenda, tradito da un passato della moglie che gli era sconosciuto. Mehdi Barsaoui lavora molto bene su questa frattura che l’inattesa notizia crea nella coppia e costringe i suoi personaggi ad un girovagare dentro i corridoi dell’ospedale e con la camera a mano stringe sui loro volti e sulla disperazione che peserà nel loro futuro, ma che ora riguarda soprattutto il presente del figlio che respira solo perché attaccato alle macchine. Non dissimile, nella sua opposizione antagonista il personaggio della madre/moglie, Meriem. I suoi comportamenti costituiscono il contraltare di quelli del marito e riaffermano, sia pure nella necessaria transizione della particolare situazione che la coppia sta vivendo, stretta come è tra due fuochi, un chiaro percorso di emancipazione più dalle tradizioni e dalle leggi di retaggio islamico, piuttosto che dal marito con il quale in fondo condivide un’apertura di pensiero che deriva anche dalla loro lunga e precedente permanenza in Francia. L’agire di Meriem sottolinea quel desiderio di riscatto da quelle tradizioni che ancora per le donne tunisine è lontano da una auspicata parità.
È così che lo scenario del film è quello delle strette relazioni familiari messe a dura prova dai fatti, ma la storia attraversa anche i temi difficili del contesto sociale, di un difficile ammodernamento del pensiero e delle regole di convivenza. Mehdi M. Barsaoui, anche autore della sceneggiatura, sa superare con credibilità i riverberi di queste antiche e sedimentate incrostazioni che rendono farraginoso ogni mutamento sociale, sa costruire un racconto in cui i temi del necessario rinnovamento del pensiero si fanno forti e sa dare un’immagine della Tunisia come quella di un Paese, nonostante tutto pronto ad accogliere i cambiamenti. La figura del medico dell’Ospedale disponibile e comprensivo, costituisce un utile raccordo di sceneggiatura, oltre che personaggio chiave rappresentativo proprio di questo difficile progresso, che serve a raffreddare i sentimenti di rivalsa da parte di Fares e di mitigare i timori della madre, offrendosi spontaneamente come mediatore tra i due. Se da una parte, il drammatico evento e la sofferenza di Aziz che intanto giace nel letto attaccato alle macchine, serve a superare le tradizioni sociali, fa anche emergere la piaga di un traffico d’organi alimentato dalla confusione che regna nella confinante Libia e dalla guerra di tutti contro tutti che rende caotico e incontrollato il Paese. Qualcuno propone a Fares la salvezza di Aziz da pagare a caro prezzo. Fares disperato accetta e alla fine gli viene consegnato un bambino la cui compatibilità clinica con Aziz è assoluta. Poche inquadrature, pochi dialoghi, un secco procedere per stacchi di montaggio e Barsaoui sa delineare un dramma collettivo che amplifica quello privato in un nuovo e preoccupante scenario in cui questa volta è l’infanzia a soffrire di un caos morale oltre che nazionale dentro il quale si spazzano via i sentimenti e nessuno spazio può trovare la solidarietà. Un figlio è quindi un film che sa essere lineare nella sua accidentata e composita narrazione, fondato su un realismo sovrapponibile ad ogni pura verosimiglianza, composto da una fitta trama di eventi, dotato di una scansione temporale sapientemente calibrata e soprattutto ingegnoso nella sua costruzione là dove l’incidente diventa la pietra angolare di un rinnovamento conseguente ad ogni svelamento della verità. Tra le più belle sorprese di Orizzonti a Venezia nel 2019.