C’è l’acqua e c’è la pietra, realtà fluida e realtà solida nello spazio offerto da Berlino, la città che più di qualunque altra è spazio stratıfıcato di Storia e di storie, reticolo urbano di edifici resistenti, ricostruzioni, reincarnazioni. Undine (in Concorso, tra i migliori, alla Berlinale 70) è un film sospeso tra questi elementi, scritto da Christian Petzold con la leggerezza dei miti che cristallizzano il loro significato nella pulsione elementare di cui sono traccia. Nel caso specifico c’è il mito dell’Ondina, ben solido nella tradizione tedesca, un po’ ninfa e un po’ sirena, benevola e intransigente allo stesso tempo, bisognosa dell’amore dell’uomo e pronta a ucciderlo se l’uomo la tradisce. Undine Wibeau, la protagonista del film, lo dice al suo Johannes, che la sta lasciando per un’altra donna: se vai via dovrò ucciderti. Ma poi il destino la salva, perché le fa incontrare subito Christoph, palombaro romantico e impacciato che ha l’aria un po’ keatoniana di Franz Rogowski. Tra i due è passione istantanea e felicità vera, questione di fluidità, di acqua alla quale appartengono entrambi. Però Undine è anche una storica, una donna di terra, che conosce e studia la storia di Berlino, la stratificazione di urbanistiche reincarnazioni della città, gli edifici storici ricostruiti quelli eretti dopo la caduta del Muro… Il suo lavoro è raccontare questa biografia tetragona della città di pietra, alla quale appartiene tanto quanto appartiene all’acqua, a quel mondo subacqueo in cui Christoph la porta.
Undine ha questa duplice connotazione, vive di questa cangiante identità: terra e acqua, Storia e Mito. Christian Petzold continua a cercare le sue storie nella sospensione tra mondi paralleli, stratificati nel rapporto mobile tra personaggi, storie, posizioni, definizioni. Era già così in Barbara, in Il segreto del suo volto, in Transit, tutti film che insistono proprio sul lavoro di sovrapposizione tra stati esistenziali, tra condizioni di appartenenza e tradimento, tra mondi paralleli, sistemi opposti. In Undine c’è poi la traccia di una passionalità fantasmatica, in cui i corpi e le figure sfumano nella loro definizione reale assieme all’innamoramento di cui sono interpreti. La linea di passaggio tra possesso e appartenenza è fluida perché scavalca la dimensione della realtà in quella del sogno, esattamente come trapassa tra paura e desiderio o verità e immaginazione. Allo stesso modo la collocazione del film è ambigua nel suo sentire la trasparenza dell’acqua esattamente nella stessa maniera in cui percepisce la solidità della città. Petzold fa insomma un film magnificamente in transito, che non appartiene a nessuno dei mondi in cui si colloca e che non si colloca in nessuno dei mondi cui appartiene. E poi è un’opera di corpi e di fantasmi, ma anche di Storia, perché Berlino resta il luogo in cui il film, in ultima analisi, si colloca: la reiterazione delle narrazioni della città ripetute da Undine ai turisti è il contrappunto storicistico alla indefinitezza del mito cui la ragazza appartiene.