L’essere diventato un aggettivo, come diceva ironizzando scherzosamente sui vani progetti carrieristici fatti per lui dai suoi genitori, lo inorgogliva. O forse lo incuriosiva soltanto. E magari a volte lo infastidiva. Fatto sta che il dover essere felliniano per Fellini era un impegno, “il ruolo più difficile”, come disse una volta a Vincenzo Mollica, alla vigilia dell’Oscar alla carriera, pochi mesi prima di morire: “perché nonostante sia lusingato di essere diventato anche un aggettivo, non so cosa voglia dire”. È uno dei (tanti) punti di arrivo del ritratto del Maestro elaborato da quel fellinista convinto che è Oscar Iarussi nel suo nuovo libro, Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico (il Mulino, 240 pp., € 16,00). Un appassionato percorso artistico e biografico composto come un abecedario che allittera le molteplici sfumature del cinema, della vita e del pensiero di Fellini. 23 capitoli, uno per ogni lettera dell’alfabeto (di Federico), dalla A di Amarcord alla Z di Zampanò. Più una rapida e incisiva introduzione, in cui Iarussi sottolinea un aspetto che in realtà illumina un po’ tutto il suo approccio al Maestro (in questo come negli altri testi felliniani che ha dato alle stampe): Fellini “è stato un raffinato antropologo del Novecento nel suo farsi e disfarsi”. Ecco dunque che questo “alfabeto di Federico” disegna l’orizzonte degli eventi che hanno definito l’esperienza felliniana nel suo farsi. Un orizzonte composto da Oscar Iarussi con la capacità di affabulare il sapere che gli è propria, seguendo la linearità del rapporto tra la personalità dell’artista (la sua formazione, le vicissitudini biografiche, gli interessi, le passioni, le delusioni…) e la scena in cui essa si esprime, ovvero l’intreccio di eventi storici, mutazioni sociali, accadimenti cinematografici che lo hanno accompagnato. Insomma un racconto in bilico tra il senso dell’aggettivazione che qualifica il poeta e la sua poetica, e l’evidenza dell’oggettivazione che rende tangibile il mondo in cui quella poesia è stata scritta e recitata.
Un percorso che Oscar Iarussi aveva tracciato già molto bene in un suo libro felliniano precedente, C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce Vita, che però si limitava alla mappatura speculare del Belpaese e di quel capolavoro felliniano. Amarcord Fellini ha invece la struttura di un puzzle, in cui lo scrittore sistema le tessere di un’immagine dell’artista che sembra corrispondere non solo alla sua statura di regista, ma anche al suo status di interprete di un mondo in transito tra arcaica spiritualità e decadente fatalismo. Un mondo che implode nella vulgata italianistica, ma che ha anche le stimmate di una visione universale dei tempi. La scelta dell’abecedario consente indubbiamente la focalizzazione per temi preminenti, in cui Oscar Iarussi si muove con la consumata conoscenza della carriera felliniana e dei suoi significati più ampi. Ma ciò non impedisce all’autore di muoversi con una trasversalità a tratti sorprendente, che finisce col coinvolgere in maniera concreta poetiche, biografie, segni e sogni paralleli all’universo felliniano. Queste lettere dell’alfabeto felliniano scelte da Iarussi vanno così dallo scandaglio di luoghi felliniani fortemente abitati (il Borgo riminese, Hollywood, il Teatro 5 di Cinecittà) alle incursioni in luoghi meramente ideali come la vagheggiante Luna, il trasognato transatlantico Rex, il ventre caldo dell’Urbe orbe romana, l’onirismo espanso del Sogno. Poi ci sono i busti di un ideale pantheon composto da Carl Gustav Jung, l’amico biografo Tullio Kezich, Ennio Flaiano, che dialogano con le calde e familiari presenze felliniane di Marcello Snaporaz Mastroianni, della procace Anita Ekberg, dalle sempre cara Giuliettina Masina, del musicante amico magico Nino Rota. Accanto a loro le figure poetiche di un immaginario che abita i corpi e abilita le trasfigurazioni archetipali: l’ossessione del Clown, l’energia vitale oggettivante del Paparazzo, la belluina arcaicità del Zampanò, sino a quell’Infanzia che incarna l’eterno puer felliniano su cui Oscar Iarussi si sofferma a più riprese. E poi ci sono i film – Dolce vita, 8 ½, Vitelloni – che si rispecchiano in quel Quid felliniano del quale scrive Iarussi: “un certo che di incantevole e pur sempre sfuggente” che attraversa le sue opere, un indefinito sentire in cui “la felicità e l’angoscia sono le braccia di un unico amplesso”.