Il titolo originale è ben più esplicito e non gioca con il dubbio e l’incognita del punto interrogativo. Pas son genre, bene sintetizza il tono quasi perentorio del film: una storia d’amore che non ha possibilità di futuro. Ben diverso, quindi, da Sarà il mio tipo? con cui è stato distribuito in Italia il film di Lucas Belvaux, tratto dal romanzo omonimo di Philippe Vilain, che affonda la sua lama in un discorso più complesso del semplice romanzo amoroso e dipinge le relazioni tra uomini e donne nei loro condizionamenti culturali. Come fare una commedia apparentemente leggera sul divario sociale, senza quasi mai farne cenno. L’intenzione di Belvaux è quella di costruire l’equivoco e modularlo con intelligenza fino alla fine, intessendo la storia tra Clément e Jennifer di dialoghi vivaci e brillanti, tra Kant, Proust, il karaoke. Tra finzioni e verità, non detti e giornate d’attesa. Il racconto procede, così, tra alti e bassi, andate e ritorni. Contrasti su cui scorre impercettibilmentel’occhio complice di Belvaux, sapiente nel non oltrepassare una certa distanza, ma senza entrare mai dentro le situazioni più intime.
Il pregio maggiore di questo film, infatti, è la radiografica cura nel descrivere fatti e personaggi come fosse una cronaca, e non un romanzo, nonostante il continuo riferimento letterario che attraversa le conversazioni dei due amati. Sarà il mio tipo? sfugge agevolmente ad ogni ‘genere’ e ad ogni definizione. Si serve di certi stereotipi per aggiungere astuzia alla piacevolezza della visione. Il ritratto dell’intellettuale parigino, alto-borghese, cinico e affascinante, che sembra saper cogliere la ricchezza di ciò che non gli assomiglia, calza con precisione ed è condotto in alternanza con quello della parrucchiera e madre single di Arras, cittadina del nord della Francia. L’ordine e l’esuberanza, il calcolo e l’ingenuità. Si passa sempre da un estremo all’altro, senza che ci sia la possibilità di un piano medio dei sentimenti. Si scivola tra tentativi e indietreggiamenti. Ma non c’è disparità tra lo sguardo su di lui e quello su di lei. L’inadeguatezza pervade entrambi e li spinge ad agire, rivelando ad ognuno le proprie debolezze. Che si traducono in silenzi via via sempre più lunghi e sempre più dolenti. Fino all’ultimo, che coincide con il vuoto dello spazio lasciato. E ci si accorge che il vuoto e la distanza sono il centro di questo film, il significato traslato dentro tutte le conversazioni, nei gesti, e soprattutto nei “non-gesti”. Quello che il racconto racconta. Come per i romanzi di Zola: non è la storia in se, ma la storia tutt’intorno che essa racconta, il mondo che si percepisce, la società che se ne descrive.