In occasione della versione italiana di I Am Ali (serie #SkyBuffaPresenta) ripercorriamo la vita e i principali film sul più grande campione di tutti i tempi.
«La boxe non significava niente… Non aveva proprio nessuna importanza. La boxe era solo un mezzo per farmi conoscere al mondo…»
Muhammad Ali
Nessuno come lui ha potuto fregiarsi dell’appellativo di “The Greatest”.
Si autodefiniva così nel 1964, prima ancora di battere il campionissimo, favorito dai bookmaker, Sonny Liston.
Cassius Clay (poi Muhammad Ali) – oro alle Olimpiadi a soli 18 anni – si diceva “greatest” quando non pochi giornalisti e opinionisti non solo americani gli davano dello «spaccone», del «maleducato», dell’«arrogante». Tanti ancora abituati all’idea dell’atleta nero che, come ha osservato Joyce Carol Oates nel saggio Sulla boxe (ed. 66th and 2nd), doveva «capire che la sua presenza era temporanea e non un diritto: che la sua stessa carriera era un privilegio che poteva essergli tolto in qualsiasi momento.». Alcune voci “di popolo” razziste si spingevano a dire di Clay: «The nigga talks too much», il negro parla troppo…Clay era radicalmente diverso. Oltre che molto alto (1 metro e 91) e velocissimo di riflessi sul ring, era un colosso anche fuori dal quadrato. Parlava come un rapper prima che esistessero i rapper, aveva l’attitude del ragazzo di strada (veniva dalla povertà di Louisville, Kentucky), senza paura, con un cervello svelto e una capacità di provocazione e di parola (politica, contestataria e sovversiva) senza pari.
Entrava nella mente dell’avversario: «Sono più bello», «Sei una mummia», «Sei ignorante», «Sei solo un bullo». Lo batteva verbalmente, prima ancora di scavalcare le corde per salire sul ring. Aveva una velocità e un gioco di gambe come nessuno. Schivava, danzava, colpiva. Tirava colpi con la stessa velocità con cui lanciava rime da poeta: «Float like a butterfly, sting like a bee», «vola come una farfalla, pungi come un’ape». «Porto la corona perché sono il Re» disse dopo la prima apparizione nel Regno Unito, salendo sul ring con tanto di corona in testa in occasione del match contro Henry Cooper (il primo pugile che lo mandò al tappeto, anche se solo per qualche secondo). La sua grandezza – fisica, morale, umana – è sempre parsa totalmente incontenibile e fuori misura.
Anche il cinema, a più riprese, ha tentato di raccontarla e di metterla a fuoco, almeno in parte. Sono innumerevoli i documentari su di lui, ma ci sono anche due biopic “di fiction”, abissalmente diversi. Il primo, oggi pressoché introvabile, è interpretato dallo stesso Ali. Io sono il più grande (The Greatest) di Tom Gries (1977) mescola fiction ricostruita ad hoc, in cui il campione recita se stesso, e diversi frammenti documentari dei veri incontri e degli allenamenti. Mette in evidenza soprattutto la questione razziale, la conversione alla fede musulmana, l’accanimento della giustizia USA, il ritiro del titolo, i giorni di carcere dopo il rifiuto di andare a combattere in Vietnam («nessun vietnamita mi ha mai chiamato negro»). Il secondo biopic è Ali di Michael Mann (2001, qui a sinistra un’immagine del film) e si concentra soprattutto sul decennio che va dal 1964 al 1974, ovvero dal match contro Liston e il primo titolo mondiale, fino all’incontro epico con George Foreman a Kinshasa, Zaire. La potente sequenza iniziale “dei titoli” ricostruisce e racchiude, in circa cinque minuti, frammenti fondamentali della vita di Ali (Will Smith) con flashback e flashforward, quasi un flusso di coscienza à bout de souffle. Allenamento notturno in strada con un’auto della polizia che avvicina l’atleta “sospetto”; allenamento al punching ball immaginando il ring; Cassius bambino che vede un Gesù bianchissimo dipinto in una chiesa; ancora bambino costretto a sedersi in fondo all’autobus, nell’area “coloured only”; infine giovane adulto ad ascoltare i primi discorsi di Malcolm X (Mario Van Peebles) sull’ingiustizia razziale negli USA.
I documentari su di lui dagli anni Sessanta a oggi sono pressoché infiniti. Dal film (di produzione francese) Cassius le grand (1964) di William Klein a Muhammad Ali: The Greatest (1969), sempre di Klein, fino al recente cortometraggio 48 Hours with Muhammad Ali di Daniel Glynn (2019) esistono decine e decine di lavori che documentano la sua vita e la sua arte sportiva. Fra i migliori c’è il capolavoro Quando eravamo re (When We Were Kings, 1996) di Leon Gast, premio Oscar per il miglior doc. Ripercorre il “rumble in the jungle”, ovvero l’incontro storico a Kinshasa tra il campione in carica George Foreman e lo sfidante Ali, attraverso un vertiginoso materiale d’archivio e interviste realizzate per l’occasione allo scrittore Norman Mailer, a Spike Lee e ad alcuni reporter dell’epoca.
Tra i lavori più recenti di maggiore interesse segnaliamo due documentari visibili su Sky. Uno è appena arrivato per la prima volta in versione italiana (serie #SkyBuffaPresenta). Si tratta di I Am Ali di Clare Lewins. È prezioso perché ha accesso esclusivo agli audio-diari del campione. Le conversazioni che registrava con i figli, con la seconda moglie, infine con George Foreman. Consente un ritratto intimo di Ali padre, marito, amico. Struggente il racconto del bambino malato di leucemia che Ali incontra a Deer Lake, Pennsylvania. Ali gli dice: «Io sconfiggerò George Foreman e tu sconfiggerai il cancro!». Quando la situazione del bimbo si aggrava, Ali, dopo un allenamento all’alba, va a trovarlo in ospedale. Lo abbraccia, lo solleva dal letto e gli ripete: «Te l’ho detto: io sconfiggerò George Foreman e tu…». Il bambino risponde: «No, io vado in cielo, da Dio e gli dico che ti conosco…». Il loquace campione non disse una sola parola nelle due ore di viaggio di ritorno a casa. Infine, l’altro doc che consigliamo di recuperare è What Is My Name – Muhammad Ali di Antoine Fuqua (visibile su SkyArte). Il film – circa 3 ore divise in due parti – è ricchissimo per materiale video e fotografico d’archivio. Tra le sequenze più potenti, quella in cui Ali ricorda il suo ritorno a casa, a Louisville, ancora diciottenne, ma già con la medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi di Roma. È talmente felice che entra spavaldo in un ristorante del centro, la medaglia ancora al collo. Clay: «Vorrei un caffè e un hot dog». La cameriera: «Non serviamo i negri». Clay: «Ma io non mangio i negri, mi porti semplicemente un caffè e un hot dog!». Nemmeno una vittoria olimpica gli permise di mangiare nel centro della sua città, fu costretto a uscire dal ristorante. Allora con amarezza dice: «Mio padre aveva combattuto due guerre mondiali per gli USA. Io avevo appena vinto un oro olimpico per gli USA. Beh c’è qualcosa che non va in questo Paese!». Il suo amico e collega Mike Tyson alla fine del documentario I Am Ali dice: «Nemmeno la parola “grande” può contenere tutto questo… Non può contenere Muhammad Ali. Devono aver creato sicuramente un’altra parola…». Quella parola però non la sa ancora nessuno e, per ora, ci accontentiamo di “greatest”.