Cantautore, autore e compositore di canzoni per Laura Pausini, Emma, Niccolò Fabi, Eros Ramazzotti, Zucchero, Elisa, Patty Pravo, Damien Rice, Bryan Adams…. (e della colonna sonora di Braccialetti rossi). Autore e conduttore di un bellissimo programma televisivo in cui andava in giro per l’Italia a raccogliere storie straordinarie di persone comuni e le trasformava in canzoni (dimmidite, 6 puntate andate in onda nel 2018 e visibili su Raiplay). E ancora molta radio (per tutta l’estate, ogni weekend su Radiodue Rai è in onda Alle 9 del mattino), l’insegnamento (corsi universitari e masterclass sulla canzone d’autore). E poi ci sono i romanzi: Ti devo un ritorno (Salani, 2016), ispirato a un fatto di cronaca e i cui diritti sono stati acquisiti da Indiana Productions per diventare una serie tv, e Per un po’. Storia di un amore possibile (Salani, 2019), romanzo autobiografico in cui racconta come è diventato genitore di Federico – così si chiama nella finzione letteraria – diciottenne in affido (tecnicamente, si chiama “prosieguo amministrativo” che – recita la nota integrativa della Procura della Repubblica – «permette di assicurare continuità agli interventi educativi nei confronti di adolescenti che hanno già compiuto la maggiore età, interventi che possono essere prolungati fino al compimento dei 21 anni» e che a Federico viene concesso, dice la dottoressa della fondazione L’Albero della Vita ad Agliardi nel romanzo, «date le condizioni di totale abbandono in cui verserebbe se, una volta fuori di qui, non avesse un posto dove andare. Abbiamo pensato che prima di procedere nella ricerca di una casa comunale di semi-autonomia potevamo»).
Una storia tormentata, «un’alternanza di abissi e di vette», che solo secondo la legge è per un po’ e che non ha scoraggiato Niccolò Agliardi tanto che oggi è padre per la seconda volta di un quattordicenne. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione del suo ultimo romanzo alla Biblioteca Civica “Ezio Alberione” di Chiusa di Pesio.
Hai affermato che l’affido è «un atto di fede laica nei propri confronti». Interessante questo slittamento del punto di vista verso se stessi che emerge anche leggendo il tuo romanzo.
Lo confermo perché nulla è previsto e nulla è prevedibile, se non proprio i requisiti base, che sono totalmente insufficienti, per potersi definire col tempo un genitore affidatario. A un certo punto diventa «ce la devo fare», «decido di fidarmi di me» e quindi, come in ogni atto di fede che si rispetti, anche quando hai la sensazione che non ci sia niente che convogli verso un senso di ragione o verso il giusto o verso il rassicurante, devi comunque continuare a sperare e a crederci.
Di fatto racconti quello che per certi versi è un fallimento.
Sono più fallimenti sempre, però, sostenuti da piccole vittorie che non sono rivincite, termine un po’ sgradevole. Gli educatori mi hanno insegnato come archiviare in una cassaforte, in un punto segreto, nelle pieghe dell’anima: mi ripetevano che è fondamentale ricordarsi dei momento positivi, perché serviranno quando penserai di non farcela. Una volta Francesco (questo il vero nome di Federico, ndr) mi ha chiesto in prestito una delle mie giacche eleganti, era bellissimo, profumato… In quel momento mi sono sentito molto realizzato perché ho avuto la sensazione che volesse assomigliarmi, che mi volesse far contento. Ricordo che avevo proprio il cuore gonfio di allegria… ecco, ho imparato a conservare le figate.
Già in Ti devo un ritorno c’è il rapporto con un adolescente complicato, Vasco. Pietro, il narratore, diventa per lui un fratello maggiore. Il passaggio successivo verso la paternità era inevitabile…
Evidentemente esistono degli atti mancati, o quantomeno degli appuntamenti mancati, in particolare nel periodo dell’adolescenza o della post-adolescenza che in qualche modo la vita decide di riproporti sotto mentite spoglie affinché tu a quegli appuntamenti a un certo punto ci vada preparato. Anche con l’esperienza di Braccialetti rossi insospettabilmente ho avuto a che fare con l’adolescenza e riguardandola, affrontandola, avvicinandomi mi sono accorto che a me erano proprio mancati dei passaggi di risoluzione di essa. Quando poi sono diventato papà di tutto quel fascino dell’adolescenza non me ne è fregato più niente di colpo, anzi ho iniziato a dire: “Senti questa cosa l’ho già vista, non mi interessa”. Sono diventato grande e me ne sono accorto perché ti passa quella voglia di essere a metà tra il possibile e il realistico, a un certo punto sei un uomo, sei reale, devi prendere in mano le cose, devi fare… Il pragmatismo scavalla tutte le forme poetiche dell’inadeguatezza, quindi bene che essere padre significhi anche essere adulti e non necessariamente vecchi. È un passaggio intermedio estremamente interessante.
Ti devo un ritorno diventerà una serie tv. A che punto siete?
Siamo in una fase abbastanza avanzata. Non è facilissimo perché è un progetto iper ambizioso, che costa tanto, una coproduzione internazionale. Per capirci, stiamo lavorando già da quasi due anni e siamo all’ultima revisione della prima puntata…
Che ruolo hai?
Supervisiono la sceneggiatura.
Ci puoi dire chi la dirigerà?
Al momento ci sono un paio di nomi in ballo… Credo che non sarà una regia italiana.
dimmidite era un gran bel programma per capire come nasce una canzone. Lo rifarai?
Sembra ci siano buone possibilità. La Rai, che lo coproduce, è in un momento di grande rispolvero dello storytelling. Anche in questo caso non si tratta di un programma facile, costa parecchio e soprattutto ci vuole parecchio tempo per realizzare una puntata.
Il tuo esordio letterario risale in realtà al 2009. Con Alessandro Cattelan hai scritto Ma la vita è un’altra cosa (Mondadori), in cui volevate andare alla ricerca dei personaggi delle canzoni.
Tutto è nato una sera in birreria, all’epoca conducevo un programma radiofonico e proprio quel giorno avevo intervistato Fiorella Mannoia e passato il brano Sally di Vasco Rossi. Le chiesi se Sally esistesse veramente e lei mi rispose che credeva di sì ma non lo sapeva per certo. Quella sera chiesi ad Alessandro se secondo lui Sally esisteva. E lui mi disse: «Ma sei scemo? Allora dovrebbero esistere anche Chicco e Spillo di Bersani o Anna e Marco di Dalla…». «Beh… – risposi io – se esistono, andiamoli a cercare». «Veramente ho altre robe da fare – disse Alessandro – però scriviamoci un libro». Così è stato, abbiamo iniziato a scrivere la mattina dopo.
Te l’ho chiesto perché mi colpisce la tua attrazione per le storie delle persone comuni. Anche nel programma radiofonico Alle 9 di mattina vai a scovare i lavori curiosi…
A me le storie degli altri piacciono da impazzire. Al di là del fatto che non sopporto parlare molto di me perché lo faccio già di lavoro, sono incuriosito da morire dai silenzi degli altri, dalle vicende degli altri, da lavori che non avrei mai scelto e che invece qualcuno ha scelto, dalle particolarità di ogni mestiere, dalle allegrie, dalle passioni delle persone…
È anche un modo per capire com’è il Paese…
Oggi mentre venivo qui ero con un amico che fa l’autore televisivo e siamo passati da un paesino di cui non ricordo il nome che dava su una provinciale. Si vedevano queste otto, nove case e ho pensato che quando noi scriviamo libri, programmi radio, tv, pensiamo sempre che esistano Milano, Roma, Napoli, Torino, Firenze, invece no, dobbiamo pensare a queste otto case che danno sulla provinciale. Chissà come vivono a novembre quando fa tanto freddo… Noi abitanti delle città siamo abituati a non considerare che l’Italia è fatta di provincia. E in provincia ci sono delle grandi storie, storie anche di solitudine, di silenzi… il silenzio è solo un risultato, dietro c’è un mondo.
Prendi le interviste fatte a cantanti, attori, calciatori e politici. Non hai la sensazione che tutti rispondano con dei clichés devastanti, che dicano tutti le stesse cose? Cose di un ritualismo sconfinato. Ecco, in generale, questo non accade se poni delle domande a un contadino. A me piace molto sapere che scelga scientemente di dare uno spazio maggiore alla lattuga rispetto alla rucola, perché non ne so niente e scopro che dietro a quella scelta c’è un ragionamento, c’è un sentire, c’è un’emozione, c’è una professione, c’è uno studio, c’è un’esperienza. Non è che che siccome facciamo i cantanti siamo tutti interessanti…
A proposito di canzoni. Tu scrivi quotidianamente…
Sì, rimane il mio primo lavoro.
A cosa stai lavorando?
Sto scrivendo per il nuovo disco di Laura Pausini e qualcosa per Malika Ayane… Devo dire che quando lo faccio con un senso, con un obiettivo mi piace per due motivi. Innanzitutto perché mi ritengo un privilegiato, perché comunque è un bel lavoro, e poi perché lo faccio con persone che mi piacciono, i miei musicisti, la mia squadra di lavoro che ormai è quella da tanto tempo, mi mette sempre un grande senso di rassicurante normalità. Quando vado in studio, benché lo trovi noioso come tanti altri lavori, il fatto di andare lì e incontrare le mie persone, i miei musicisti, quelli con cui lavoro da tanto tempo, che ci conosciamo e non dobbiamo dirci niente è bellissimo. È tutto facile, ognuno sa quello che deve fare.
Stai anche preparando un nuovo disco?
Adesso non ho niente da dire di rilevante, non per me, non mi sento di avere niente di interessante da dichiarare. L’urgenza adesso è di stare bene, fare la radio, ascoltare le storie degli altri, scrivere per gli altri. A un certo punto impari che anche mettersi da parte è un’urgenza.