L’esordio di Alessandro Grande nel lungometraggio ha avuto un battesimo di notevole prestigio facendo parte della selezione ufficiale del Concorso del 2020 del Festival di Torino. Avevamo apprezzato il cinema breve di Alessandro Grande in Bismillah cortometraggio, denso e ricco di efficacia narrativa, oltre che carico di una straordinaria umanità che legava la storia. Il confronto con un film dal respiro più lungo rappresenta sempre una sfida, a suo modo un’incognita e quindi un rischio artistico che comunque vale sempre la pena di correre, anche quando i risultati finali lascino a desiderare. Con Regina Grande compie questo salto nel lungometraggio e si confronta ancora una volta con una storia calabrese, con al centro la vicenda di una ragazzina, ancora adolescente, orfana di madre, che ha la passione della musica e del canto. Una passione ereditata dal padre che la spinge verso un possibile successo. Ma durante una gita in barca un episodio cambierà per sempre la sua vita e anche quella del padre. Grande guarda con rispetto all’età dell’adolescenza, quell’età di Regina, ma anche all’ambiente in cui la ragazzina, dall’aria sempre un po’ spaventata, cresce. Un ambiente, che pur tra i piacevoli paesaggi silani, resta stretto in una ragnatela che si tende tra il malaffare e la violenza. Un ambiente che segna i volti e incupisce i rapporti. È così che tutte le relazioni tra i personaggi restano improntati ad una certa lugubre e quasi silenziosa violenza, anche quando appaiono amichevoli.
In un film che prometteva altro, ci si accorge presto che anche Alessandro Grande non sa del tutto affrancarsi dalla necessità, comune a tutti i registi calabresi – unica eccezione Calopresti, ma escludendo l’ultimo film – di inserire, anche se fugacemente, nel suo racconto i temi antichi della piaga sociale della ‘ndrangheta che indubbiamente costituisce un’angoscia segreta per ogni calabrese, ma della quale si sentirebbe anche la necessità che venga una buona volta superata provando a restituire il volto differente e meno arcigno, che esiste ed è anche diffuso in Calabria come in ogni altro luogo. Ma tant’è e anche il regista catanzarese non può esimersi dal raccontare una storia in cui sono molte e gravi le ombre gettate dalla malavita organizzata, pur senza finalizzare il racconto come una pura storia di mafia. Regina, resta comunque un film ancora grezzo, a suo modo gentilmente sgraziato, e quello che avrebbe potuto essere un racconto di formazione, diviene solo la cronaca di un’angoscia che trova l’unica soluzione attesa e possibile. È questa indecisione a caratterizzare il film. Regina diviene a tratti un film in cui la storia sembra immobilizzarsi e come la sua protagonista, non sa andare avanti, non sa che direzione seguire. La storia a volte, invece, sembra carica di eventi con una accelerazione che fa sperare in uno sviluppo quasi da noir, salvo poi fermarsi, indugiare, come l’indugiare di Regina tra le mura della casa estranea (peraltro soluzione improbabile quella di vivere un giorno clandestinamente in una casa altrui, entrando e uscendo come se si fosse nella propria). Eppure l’incipit faceva ben sperare con l’avvio di una vicenda legata ad una giovane speranza musicale, traccia questa immediatamente abbandonata e ripresa solo nel finale per una fugace e amichevole apparizione di Brunori. Regina resta un film incerto, che sembra incedere ad una balbuzie connaturata o ad una forma a volte logorroica che si appesantisce all’ombra del malaffare che peraltro non diventa mai scontro civile tra un pezzo di società che ne rifiuti gli assunti e organizzazione criminale imperante. Forse c’è troppa carne al fuoco, come si dice, anche se a guardare il film sembra essercene poca. In questa incertezza il film si consuma e la giovane Regina non canta più e non sa dove andare.