Dice cose importanti, e lo fa con sguardo concreto e sempre più pregno mentre avanza verso le scene madri, Il concorso (Misbehaviour), secondo lungometraggio per il cinema della regista inglese Philippa Lowthorpe (in filmografia soprattutto lavori per la televisione e serie tv tra cui due episodi di The Crown). Si immerge in un anno preciso, e spartiacque come tutti gli anni che chiudono un decennio e ne inaugurano un altro, il 1970, e in un contesto altrettanto nitido, la lotta delle donne per i loro diritti e per lo scardinamento dello stato patriarcale e sessista. Gli anni Sessanta sono appena finiti, la guerra del Vietnam è sui piccoli schermi, il conduttore televisivo Bob Hope, nato in un quartiere londinese ma poi icona statunitense, visita le truppe americane al fronte con i suoi spettacoli umoristici e maschilisti, e Londra si prepara a perpetrare il rito di Miss Mondo ospitando la finale e, come invitato d’onore, proprio il celebre comico. E gli anni Settanta si aprono con tutte queste dinamiche aperte, e con scontri di classe, di generazioni, di liberazione dalla sottomissione ben in primo piano. Non è quindi casuale che il film si apra su dettagli del volto e del corpo di una giovane donna (“donna, e non ragazza” dirà in una scena alla madre) in attesa di sostenere un colloquio per entrare all’università. Lei, Sally, già madre di una bambina che cresce da sola con l’aiuto della madre e del suo compagno.
Fin da subito, Il concorso mette in campo la contrapposizione tra regole sociali arcaiche e necessità di elaborare nuove strategie per affermarsi e emanciparsi: in casa, a scuola, sul lavoro. Quel colloquio rappresenta, nella sua sintesi, il conflitto in corso. E Keira Knightley (nel ruolo di Sally) esprime, con una recitazione per sottrazione, con la determinazione del suo sguardo e dei suoi gesti essenziali, alla perfezione il cambiamento di una giovane della classe media le cui idee sulla condizione della Storia e delle donne si trasformeranno da teoriche in pratiche nel momento in cui incontrerà un gruppo di attiviste, una comune che ha appena avviato il Movimento di liberazione delle donne e compie azioni pubbliche per sovvertire l’ordine delle cose. Così, al pari del film, Sally si immerge in quelle esperienze per lei nuove, sfidando paure, luoghi comuni, per affrancarsi dal ruolo di donna costretta, come lo fu la madre e lo furono generazioni di donne, a vivere accudendo marito e figli tra le mura di casa. Un nuovo inizio per Sally, che si accresce mentre in parallelo, in un hotel di lusso, fervono i preparativi per l’edizione di Miss Mondo gestita da una coppia che più conservatrice di così non si potrebbe. La scelta di alternare le due macro-storie (il concorso e la ribellione, che si riflettono tanto nel titolo italiano, che privilegia il pre-testo, quanto in quello originale, che si concentra più esattamente sul senso più profondo e ampio, di cui la competizione è solo una parte, ovvero il “misbehaviour”, il “comportamento scorretto” delle attiviste agli occhi della società), che infine si incontrano, funziona grazie a una regia che non si disperde, a un procedere compatto verso l’esplosione del gesto, la manifestazione della rivolta nel luogo del potere, durante la cerimonia della finale in diretta televisiva.
Dicono tutto i volti immobili, pieni di rabbia, di Sally e delle altre giovani che assistono fra il pubblico al “mercato delle vacche” (così Sally in un’intervista tv, voce di contrasto alle due reazionarie degli altri ospiti, ha definito lo show di Miss Mondo) rappresentato sul palcoscenico, fra dettagli anatomici e battutacce dei presentatori (ma cinquant’anni dopo nulla è purtroppo davvero cambiato…), prima di alzarsi e gettare scompiglio facendo interrompere la trasmissione. Finiranno arrestate, ma troveranno solidarietà e consenso. E Lowthorpe filma, dietro le sbarre della prigione in cui le donne hanno trascorso la notte, la scena/inquadratura più bella e carica di emozioni di tutta l’opera: sedute sulla panca contro un muro anonimo, Sally e Jo (l’altra militante alla quale il film dà più spazio, interpretata con energia e sensualità dall’attrice e cantante irlandese Jessie Buckley, già protagonista di A proposito di Rose) parlano e si rivelano cose importanti mentre la macchina da presa si avvicina loro in modo quasi impercettibile, le “incornicia”, cogliendo stati d’animo, problemi e sorrisi. Knightley e Buckley sono immense. In un film che, però, dice anche altro. Si pensi al declino di un mondo che si sente ormai fuori posto, incarnato da Bob Hope e dalla moglie Dolores. Si pensi alla questione dell’apartheid in Sudafrica che rimbomba in tutta la sua potenza e alla maniera in cui la direzione del concorso, in imbarazzo e violenta nel reagire alle domande della stampa, decide di “risolverlo” invitando una ragazza bianca e una nera. Il concorso fa il ritratto di un anno e di un periodo con una ricostruzione credibile, portando in immagini un fatto realmente accaduto (e alla fine non stona che le attrici guardino in macchina e si specchino nelle vere donne che vissero quegli avvenimenti, filmate oggi anziane) per dirci: la lotta continua; continuiamo a lottare.