Il primo film in lingua inglese di Mia Hansen-Love, Sull’isola di Bergman (reduce da Cannes74) è un’immersione intima in un ambiente che spinge alla riflessione e all’ascolto di sé, grazie all’osservazione diretta del paesaggio stupendo in cui è girato. Perché due registi lasciano la loro casa per trasferirsi sei settimane sull’isola di Faro, dove visse per più di trent’anni Ingmar Bergman? Semplicemente per cercare l’ispirazione che si trasformerà in un film, la scintilla che innesca il racconto e crea un microcosmo fatto di parole, gesti, colori e oggetti. Per Tony e Chris, come per il maestro svedese, la luce, il mare, la semplicità del paesaggio rappresentano il punto di partenza di un viaggio tutto interiore a partire dal quale plasmare lo sguardo. Ambizioso ed efficace il gioco di rinvii al cinema di Bergman, Persona, Scene da un matrimonio, Come in uno specchio, con i detour dei protagonisti all’interno delle loro stesse storie o in quelle da raccontare. Come se su quest’isola la narrazione avesse il potere di autoalimentarsi di continuo a seconda della spiaggia o dell’edificio in cui ci si ferma. E infatti Chris, la più libera e tormentata della coppia, sembra non volersi mai fermare. Irrequieta di trovare una fine alla sua storia, la cerca con allegria e ansia non solo nei luoghi, ma anche nelle persone che incontra.
E sarà quella di un amore impossibile, un film nel film su un matrimonio che richiama sull’isola un gruppo di amici a celebrarlo. Una donna e un uomo, un tempo innamorati, si ritrovano e riaccendono la fiamma della passione. Il meccanismo messo in atto da Hansen-Love è tradizionale, quasi classico. Prima si procede con l’esplorazione del luogo, un’osservazione lenta, ripetitiva, talvolta esasperata, per far affiorare parole nascoste. Poi, all’improvviso il racconto travolge la scena, portando a galla impensabili risvolti, come se Chris si ritrovasse davanti a uno schermo, che è anche specchio, a osservare, questa volta, una se stessa trasfigurata, pronta a affrontare i piccoli fantasmi della sua vita. La regista è abile nell’usare l’allusione come strumento per moltiplicare la messa in profondità, costruendo una vero e proprio labirinto in cui il suo personaggio si aggira disordinatamente, prigioniera di un racconto che non trova il suo finale. Ci si muove abilmente sulla linea sottile tra immaginario e realtà. Il cortocircuito è inevitabile e causerà il ripetersi delle illusioni, dei risvegli, di lucidi ripensamenti. Tutto contribuisce a mettere in movimento un film che potrebbe non finire mai. Con l’eleganza che contraddistingue da sempre i suoi film, Hansen-Love celebra insieme il cinema, l’amore e la vita che semplicemente scorre.