Piccoli organismi di un’Italia periferica in La notte più lunga dell’anno, di Simone Aleandri

A volte sembra che il cinema italiano soffra di una inguaribile afasia. Per curare questo male radicato in un cinema a volte magnifico, a volte deludente e a volte in quella cottura ibrida che sta in mezzo al guado senza avere le idee chiare su quale direzione prendere, come quella dell’uovo barzotto, gli autori e gli sceneggiatori operano non sull’esito della scrittura, ma sulla superficie della struttura narrativa, non sull’elaborazione di idee, ma su cliché consueti buoni per tutte le stagioni. Da qui film che a volte scivolano via lisci senza lasciare traccia e senza suscitare emozioni. Storie che, tratte da una cronaca frequente e consolidata, non importa il dove e il quando, ma da qualche parte sarà accaduto, provano a restituire il reale del fuori, ma spesso in un’ottica di mera trasposizione, con uno sguardo che nulla aggiunge, anzi sottrae all’emozione della cronaca stessa. L’opera, la scrittura, in questi casi non ha elaborato il dramma, ma si è limitata a guardarlo, senza scavarci dentro, per ricostruire il reale – se di reale si deve parlare – per il resto basta la cronaca. Non è quindi sufficiente neppure una coralità che appartiene al quotidiano e non ad inconsuete ipotesi della struttura della narrazione. Il tema vero è quello della rappresentazione e del lavoro che si deve portare a termine per farla diventare quello che Majakovskij chiamava visione del mondo.
 

 

La notte più lunga dell’anno di Simone Aleandri, soffre di molti di questi problemi, anzi quasi di tutti. Nella notte del 21 dicembre, la notte di solstizio che astronomicamente ha la durata più lunga dell’anno, in una inusuale Potenza, città del tutto estranea al cinema italiano e qui assurta a luogo denso di una umanità che sembra sfinita, si incrociano le storie di Luce (Ambra Angiolini) cubista che vive con il padre anziano e stralunato (Alessandro Haber), quella di Francesco politico in disarmo che sa di essere ricercato dalla polizia, di tre giovani che credono ancora che l’adolescenza duri per tutta la vita e di Isabella (Anna Ammirati) che ha una storia d’amore clandestina con un suo ex alunno. Quella notte diventerà decisiva per tutti questi personaggi e la sua lunga durata diventa metafora della trasformazione. Un soggetto non proprio originalissimo se pensiamo alla notte come tempo della catarsi e della mutazione. Nomi illustri, che non corre l’obbligo di citare, si sono cimentati nella lettura del tempo notturno come luogo del ripensamento della propria condizione e il film di Aleandri nulla aggiunge in quella mera messa in scena del già visto, del già sentito. Ma soprattutto sembra non ci sia alcuna funzionalità nel collage di vicende, non c’è un organismo che respira, ma solo piccoli organismi che vivono ciascuno nella propria bolla di un’Italia periferica.
 

 
Se pur con tutte queste carenze La notte più lunga dell’anno resta comunque un film che come si dice regge la botta, che, in altre parole se la cava, è grazie ad alcune presenze che si rivelano essere di ottima qualità, a cominciare da Ambra Angiolini, sulla quale si può fare affidamento ormai da qualche anno avendo acquisito una piena maturità e un suo fascino maturo e discreto. Si prosegue con Alessandro Haber, sempre più corpo estraneo ma organico ad un cinema che sa valorizzare la sua irregolare presenza, fino a Massimo Popolizio sacrificato nel ruolo del politico ricercato e forse non del tutto a fuoco nel suo personaggio. Ma in questa galleria di nomi dentro la quale sembra esaurirsi la forza del film, non va dimenticata la presenza discreta, ma incisiva di Mimmo Mignemi, il benzinaio amico di Luce e trait d’union tra le quattro storie del film e anche amico del cane che ci rimette la pelle, anche stavolta, come da manuale. In ogni film in cui compare un cane alla fine soccombe, ma perché?