Cristian Patanè: Corpo e aria e l’importanza del rito

La morte e il rito funebre sono al centro di Corpo e aria, l’intenso cortometraggio scritto e diretto da Cristian Patanè e interpretato da Francesco Colella e Selene Caramazza che dopo essere stato presentato in importanti Festival nel mondo (Stati Uniti, Colombia, Germania, Irlanda, Francia) venerdì 24 giugno sarà proiettato al Cinemino di Milano alla presenza del regista in una serata dedicata a quattro corti italiani che stanno facendo parlare di sé. Una ragazza lavora in un’impresa di pompe funebri, prendendosi cura dei corpi e preparandoli per l’ultimo saluto. Quando si ritrova a doversi occupare del cadavere di una persona a lei cara, succede qualcosa che in qualche maniera la riconcilia con la vita. Nessun dialogo, ma immagini potenti (la fotografia è di Daniele Ciprì) accompagnate dalla musica ipnotica che la ragazza ascolta per esaltare la vita e contrastare a modo suo il mondo che la circonda. 15 minuti che rimangono impressi e che ci ricordano quanto la morte, spesso rimossa, faccia in realtà parte della vita di ognuno di noi. Patanè (classe 1991) nelle note di regia afferma: «I riti esistono da prima della nostra storia e resistono anche nelle società laiche. La morte è uno dei momenti cruciali in cui gli esseri umani si ritrovano sugli aspetti fondamentali della propria esistenza. Quel tempo, scandito dal rito, è uno dei momenti più sacri nella vita di tutti: questi riti vanno protetti, soprattutto ora che il Covid li ha messi a repentaglio». Lo abbiamo intervistato.

 

Da dove nasce l’idea del corto?

Ci sono stati tre momenti: il primo è quello della vita, le cose che accadono, i propri traumi, ed è qualcosa di molto antico, fa parte della mia adolescenza, un lutto che è un’immagine che ritorna e che esorcizzo facendo film. Il secondo momento, in cui si è accesa la lampadina, risale a qualche tempo fa: facevo l’assistente alla regia per una serie in costume (L’Ora. Inchiostro contro piombo di Piero Messina, ndr) e giravamo dentro l’ex ospedale Forlanini di Roma, in un vero obitorio, dismesso da quarant’anni. Ma dove abita la morte non se ne va, nemmeno dopo decenni, infatti l’odore era pungente però si percepiva che era una cosa antica. Stavamo girando una scena con una vittima sottoposta ad autopsia, con giornalisti presenti per indagare e a me toccava la figurazione speciale con il morto: la camera era buia, puzzava di morte, non si trattava di un atto meccanico, e infatti ho avuto una cura particolare per quel momento. Abbiamo fatto un po’ di training con l’attore, gli ho preso il polso per vedere se fosse morto e poi abbiamo girato. Quel gesto di lui che era morto mi ha scattare qualcosa anche perché, finita la scena, l’attore ha avuto un attacco di panico, cosa che succede quando entri in connessione profonda con ciò che sta accadendo pur non sapendo di cosa si tratti. Quella notte, tornando a casa, mi era chiara l’idea di un’agenzia di pompe funebri a conduzione familiare, in cui c’è una ragazza che è la giovane figlia e c’è la storia. Il terzo momento è la realizzazione: la sceneggiatura era un’idea, una visione, che ha avuto delle briglie sempre molto larghe perché questo tipo di sentimenti difficilmente possono essere imbrigliati in una drammaturgia canonica.

 

 

Come ti sei preparato?

Ho seguito una sorta di apprendistato in alcune agenzie di pompe funebri, poi in una in particolare, sono stato in vari obitori, e l’esperienza diretta mi ha fornito tutto il materiale artistico, sensoriale…

 

Parlare del rito funebre dopo quello che è successo durante la pandemia amplifica tutti i momenti di Corpo e aria

Avevo questa idea dentro e avevo iniziato a parlarne mentre accadeva il Covid, poi sono arrivate le immagini di Bergamo e le agenzie di pompe funebri mi dicevano come stavano i fatti: non si celebravano i funerali, quindi il rito tanatoestetico. Per loro era un problema economico, ma da un punto di vista più antropologico, spirituale era un grande dramma collettivo. La nostra cultura inizia a esistere nel momento in cui seppelliamo i nostri morti, anche le guerre venivano sospese per celebrare il rito del trapasso che è il rito fondativo della nostra umanità. Il Covid ha distolto l’attenzione da molto cose fondamentali tra cui questa. Lavorare con quella complessità non è stato semplice… 

 

Il richiamo al periodo è esplicito: nella prima scena entrano due necrofori con la mascherina sul volto.

Era il pretesto perfetto per parlare del Covid senza parlarne, per stare di fronte al tabù della morte e ai tabù che si stavano andando a intrecciare nella nostra quotidianità (a oggi ancora sullo schermo non si vedono le mascherine, ancora c’è tabù su questo). La mia sfida era fare qualcosa di universale, antico, senza tempo… I corti  lo permettono.

 

Non ci sono dialoghi, ma hai comunque dato a ogni personaggio un nome. Non solo Gaia, la ragazza, ma tutti i cadaveri hanno un nome come si scopre sui titoli di coda.

In realtà è stato molto utile per me e credo anche per gli attori che impersonano delle vite: c’è la vita della ragazza spezzata violentemente (si vede che c’è stata un’autopsia), il primo cadavere invece è un uomo morto per amore deluso… Ho creato un contesto perché gli attori in quel momento stavano vivendo l’esperienza della propria morte e farlo attraverso i personaggi aiuta a immedesimarsi, se invece si pensa alla propria morte si entra in una dinamica psichica complicata. Con l’immedesimazione, si vive la morte in maniera riflessa.

 

 

Come hai lavorato con Francesco Colella e Selene Caramazza?

Francesco, che identifico con il padre, era l’unico non preparato, sul set doveva vivere l’esperienza della sua morte. È un grande attore di teatro, oltre che di cinema, sa usare perfettamente il diaframma e per me è una scelta poetica perché l’ho scoperto attraverso il lavoro di Piero Messina, il mio mentore, quindi sapevo di cosa sarebbe stato capace. Selene, nonostante la giovane età è un’artista molto pronta e intelligente: è venuta con me in obitorio, si svegliava alle 4 del mattino, alle 5 eravamo là, alle 9.30 stavamo fuori perché anche lei doveva vivere il tesoro che avevo trovato.

 

Parliamo dell’uso che fai della musica techno che apre un mondo altro…

Sempre durante la mia preparazione in obitorio osservavo gli operatori e notavo che in alcuni momenti specifici si mettevano a parlare di calcio, non sempre e non a caso, ma in momenti ben definiti, poi ho capito perché. Non si può essere freddi o insensibili di fronte a una vita che si è appena spenta, ma il calcio serve per creare una schermatura fisica, permette di rimanere legati alla realtà, non fa precipitare nella dimensione vorticosa della morte. È un modo per rimanere vigili quando si fanno delle cose tecniche, in altri momenti invece c’è una particolare attenzione, un rispetto, una delicatezza che richiede il silenzio. Per esempio quando si truccano i cadaveri, nella parte finale del rito, ed è quando si sta restituendo l’immagine del deceduto pronto per la morte. La musica serve al personaggio, a me interessava lavorare con una materia umana giovane, innanzitutto perché con quello io riesco a empatizzare. Mi piace molto la musica, ho scoperto tardi la techno e quando la ascolto – dirò una cosa un po’ bislacca – e come quando ascolto Beethoven o Bach: richiama in me qualcosa di molto più antico. In questo caso la techno è tutto quel mondo tribale del battito, qualcosa che ti fa sentire vivo… Gaia è viva nonostante faccia quel lavoro, sta in quello stato meditativo molto profondo, quando non ha la musica e guarda il morto non riesce nemmeno a fare un semplice gesto come abbottonare un pantalone perché c’è il distacco finché non si confronta con la morte del padre. Che poi per renderlo universale, in questa continua sottrazione che abbiamo messo in opera, ho voluto rendere quel personaggio “un caro”: può essere il padre, il fratello, una persona cara…

 

 

Come è stato lavorare con Daniele Ciprì?

Con Daniele avevamo già lavorato, ma è la prima volta per una cosa mia, molto personale. È sempre stato un mio grandissimo desiderio poter lavorare con lui e quando è nata la collaborazione siamo diventati anche molto amici perché lui in questo è davvero un maestro, cioè una persona che deve anche restituire: lavora bene con i giovani perché c’è scambio sinergico, non esistono le barriere dell’età, dell’esperienza. Nel film ha fatto una cosa originale che mi è piaciuta molto. Nei film siamo abituati a vedere i cadaveri con la luce fredda, decolorati, ma non sono così nella realtà: a un certo momento del rigor mortis c’è anche il rigor vitalis, con il sangue che inizia a scendere verso il basso creando quelle macchie che si vedono nella signora, quindi Daniele ha scelto di farli con la luce calda, poca luce, giusta e poi lavorare sulla macchina, lui era anche l’operatore e lì è stato bellissimo perché c’era connessione con tutto. Eravamo dentro una stanza, si respirava una certa atmosfera che per forza di cose è personalizzata dall’esperienza di tutti, le energie a un certo punto erano tangibili.