Infinito ma non oltre: Lightyear – La vera storia di Buzz, di Angus MacLane

Saga maestra per eccellenza della produzione Pixar, Toy Story fin dalle origini ha dimostrato di avere ben chiara l’evoluzione possibile del cinema attraverso le sue infinite germinazioni. Cos’era in fondo “il mondo dei giocattoli” (come da titolo italiano) se non un sottoinsieme della realtà di Andy e, più in generale, un riflesso di quel meccanismo proiettivo che induce lo spettatore a cercare un prolungamento dell’avventura nel merchandising da essa stessa generato? Anche per questo, un progetto come Lightyear chiarisce subito i termini con cui si inserisce nel processo, attraverso un cartello iniziale che lo classifica quale film preferito di Andy, a partire dal quale era nato il giocattolo di Buzz Lightyear, eroe della saga maestra Pixar. Che è una bella vertigine, essendo dunque l’evoluzione quasi un prequel e l’epigono una sorta di impossibile modello originale da raggiungere. Ma, soprattutto, l’idea alla base della storia fornisce una bella possibilità di liberare il concetto di “universo”, come oggi viene inteso, dalle logiche stringenti e limitative della continuity. Perché, in fondo, quella a cui stiamo assistendo è una storia ancora tutta da raccontare, ma di cui già conosciamo i termini: Buzz Lightyear è infatti un Ranger spaziale in lotta contro le macchinazioni del malvagio tiranno cosmico Zurg (che sarebbe poi anche suo padre, volendo ossequiare la citazione da Star Wars presente in Toy Story 2).

 

 

Di più, esiste persino una meno nota serie animata dei primissimi anni Duemila, Buzz Lightyear da comando stellare, che quella storia l’ha già esplorata ampiamente. Cosa possiamo dunque chiedere a questo nuovo/vecchio lungometraggio, se non la libertà di rompere gli schemi come i suoi presupposti e il motto stesso “verso l’infinito e oltre” già abilmente sintetizzano? Devono averlo pensato anche i realizzatori, considerando come la storia descriva proprio i tentativi del Ranger di uscire dal loop generato dagli infiniti (e vani) tentativi di infrangere i limiti dell’ipervelocità per riportare a casa il suo equipaggio, rimasto bloccato su un pianeta alieno. Una missione cui Buzz si dedica con ardore, sacrificando energia, tempo e in definitiva anche gli affetti, visto che ogni tentativo di raggiungere il limite comporta un salto temporale in avanti di alcuni anni. Così, mentre gli amici invecchiano e muoiono, lui resta saldamente ancorato a una missione che non interessa più a nessuno, imprigionato appunto nella sua condizione di giovane/vecchio che vuole rimediare a un errore primigenio di cui la nuova comunità che nel frattempo si è consolidata, quasi non ha più memoria. Il film alla fin fine è tutto in questo superamento di un’immobilità genialmente sintetizzata nel contrasto con la ricerca dell’ipervelocità, in una vertigine di opposti che vedrà Buzz tentare il tutto per tutto insieme a un gruppo di reclute male in arnese, che lo spingeranno anche a fare i conti con il proprio esasperato individualismo. In sostanza una riflessione sull’importanza di una comunicazione orizzontale in luogo di quella verticale classica, rappresentata dall’eroe che vuole elevarsi sopra la massa per salvarla.

 

 

Tutto perfetto, dunque, e portato avanti con quella scioltezza abile dei modelli Pixar che mentre inseguono tempi narrativi da racconto spaziale un po’ retrò (con tutto l’armamentario di navette, robot e raggi laser), si avvantaggiano di tutta la sinuosità visiva concessa da una cgi che permette movimenti di macchina complessi, piani sequenza elaborati e punti di vista vertiginosi. O forse, questo modello, in definitiva tanto perfetto non è, per il suo voler rappresentare una rottura che di fatto è reiterazione di uno schema ormai un po’ troppo adagiato sugli allori. A ben guardare, infatti, Lightyear è davvero un film “imprigionato”, perché figlio di logiche narrative prevedibili e fin troppo accondiscendenti verso sé stesse, al pari di personaggi che vogliono essere inediti ma di fatto risultano refrattari a qualsivoglia tentativo di evoluzione. Al pari di tanto cinema attuale troppo attento a compiacere il proprio pubblico evitando ogni possibile problematicità e conflitto, così Lightyear è infatti un film che rinuncia a possibili dicotomie dimostrandosi, in ultima analisi, ignavo. Abbattuto il classico modello del buono contro il cattivo, resta un eroe spiantato che deve rinunciare alla sua missione perché tanto ormai è andata così e dall’errore in fondo è nata una comunità tutto sommato ben felice e integrata nel nuovo mondo. Il tutto mentre intorno a lui fioriscono personaggi un po’ inetti ma che in fondo vanno bene come sono e continueranno a comportarsi nello stesso modo dall’inizio alla fine, portando a casa il risultato un po’ grazie alla fortuna e un po’ alla proverbiale arte dell’arrangiarsi. E guai a metterne in evidenza le incapacità: subito l’eroe è costretto a prodursi in un proverbiale sermone su quanto in fondo in gioventù anche lui non fosse proprio il primo della classe. Ma se la decostruzione è un intento lodevole, il prezzo da pagare è la negazione di una drammaturgia che è condizione essenziale per creare dei caratteri complessi e ispirazionali, in grado di addivenire al risultato finale attraverso scelte coraggiose e appassionanti. Un peccato per Lightyear, film che riporta la Pixar al cinema ma che in definitiva sceglie di non andare veramente oltre il risultato di un innocuo titolo da pomeriggio disimpegnato per piattaforme streaming. Anche questa una vertigine di opposti, in fondo, ma che lascia un certo retrogusto amaro di troppo dopo la visione.