Nello sguardo ottuagenario di Pupi Avati persiste una fascinazione del medioevo e del passato in generale che il regista bolognese ha saputo in questi anni traghettare verso le immagini del suo cinema, a volte in maniera egregia (Magnificat del 1993 ambientato in pieno medioevo e L’arcano incantatore del 1996, ambientato nella metà del XVIII secolo), a volte in maniera forse meno incisiva (I cavalieri che fecero l’impresa del 2001 ambientato in pieno 1200). Ma di sicuro, comunque la si pensi, con Dante Avati ha saputo raggiungere un risultato che a volte non si pensava fosse nelle sue corde di regista bonario ed emilianamente esuberante con quel suo cinema della memoria e dell’amichevolezza. Il Dante di Avati parte da una bella intuizione che sa diventare originale spunto narrativo in una bilocazione della vicenda dantesca e di quella di Boccaccio suo ammiratore e postumo messaggero. I fiorentini dopo molti anni dalla morte del poeta intendono risarcire l’unica superstite della famiglia dell’Alighieri che vive da suora in un convento di Ravenna dove il padre morì. I fiorini d’oro che dovranno essere consegnati alla figlia di Dante, vengono affidati a Giovanni Boccaccio, già malato dal canto suo, ma orgoglioso di potere rendere questo servizio al sommo poeta che fu quello che gli diede la maggiore gioia della sua vita: l’amore per la poesia. La peste non era del tutto finita a Firenze quando Boccaccio parte con il suo carico di entusiasmo e di quella piccola ricchezza, ma anche con una bambola un poco rotta che vuole donare alla sua unica figlia, affidata dalla nascita ad una donna che abita a Ravenna.
La doppia narrazione consente di seguire con una certa agilità narrativa e senza scosse la vita dei due sommi poeti, laddove la vicenda di Dante diventa una digressione, assumendo i contorni del fulcro narrativo e finendo con il restituire all’episodio di cui forse Boccaccio fu vero protagonista un ruolo secondario, pur apparendo questo come determinante dentro i due piani narrativi. Una scrittura, dunque, che favorisce la fascinazione del racconto voluta da Avati e che sa avvolgere lo spettatore dentro un’aura medioevale, che forse finalmente, in un film italiano, sa risplendere di quella forza segreta che riserva l’immaginario e che le immagini del cinema soltanto possono restituire. Avati riporta il suo (e il nostro) medioevo in quella dimensione quasi pittorica, ma precaria, in quella condizione un po’ sudicia e quotidiana, che se da un lato ricordano le pitture materiche e posteriori di Mantegna e Bruegel, dall’altra trasferiscono sullo schermo il disagio di quella quotidianità misera cui era costretto a vivere il popolo. Un po’ guardando forse anche al medioevo di Le Goff e della scuola francese degli Annales che hanno raccontato proprio quel medioevo della storia materiale. È un’idea di medioevo che finalmente si affranca da ogni guerra e da ogni battaglia e nella quale anche il percorso politico di Dante è visto più in funzione dell’amicizia dolorosamente interrotta con Guido Cavalcanti e del peso che Dante ebbe a sopportare per le sue dignitose scelte politiche con la fuga e l’esilio e anche, in fondo, con la sua stessa fine, piuttosto che come fatto politicamente eclatante sotto il profilo di una enfatizzazione della sua stessa biografia. È forse grazie a tutte queste scelte che il film gode di una fluidità narrativa invidiabile pur nella sovrapposizione, a volte anche brutale, tra la vicenda umana di Dante e il faticoso viaggio di Boccaccio verso il convento del ravvenate che ospita la figlia del poeta. Gli inserti narrativi che riguardano la vita di Dante da bambino e poi più adulto ci raccontano di un poeta orfano di madre già in tenerissima età e con il padre risposato con una donna molto più giovane di lui. Un Dante che agli occhi dello spettatore, così come a quelli di Boccaccio, non invecchi mai se non sul letto di morte, per una eternità che non riguarda solo i suoi versi e l’amore assoluto e carnale per Beatrice.
È dunque proprio la dimensione medioevale che sembra restituire il regista bolognese – che qui si è avvalso della consulenza di dantisti e storici e gli effetti positivi del lavoro di interazione tra discipline si vede tutto – pur restando invisibile dentro le pieghe della narrazione, ma piuttosto visibile nella capacità di restituire una certa nudità del medioevo, una sua certa ingenuità popolare contrapposta alla spietata furbizia di ogni potere compreso quello papale, interpretato da un matronesco Leopoldo Mastelloni. Da qui anche la complessità del film, complessità che possiede e che sa non mostrare se non nei riti e nel linguaggio aulico, ma senza eccessi e per questo credibile, sfuggendo alle trappole di operazioni posticce e un poco fastidiose di parlate forse reali, ma insopportabilmente intellettuali poiché non organizzate compitamente dentro il tessuto del film. Un film complesso che ricorda, pur nella sua profonda diversità e nella differente destinazione, La vita di Dante di Vittorio Cottafavi, lavoro televisivo del 1965 che oggi potrebbe trovare posto nei circuiti televisivi solo durante le alte ore notturne con ascolti ben diversi dai 15 milioni di spettatori che all’epoca lo seguirono in tempi di bassa scolarizzazione e ancora largo analfabetismo. Avati come Cottafavi lavora sul tempo e sulle ambientazioni, ma anche sulla dicotomia potere temporale/potere spirituale, descrivendo la figura del poeta dentro una dignitosa laicità e per nulla incline a piegarsi o a inquinare le proprie idee in nome di un quieto vivere che forse non ebbe mai e, nonostante ciò, fu capace di generare un’opera immortale come diventò il suo nome. A proposito degli attori che hanno contribuito ad arricchire il film oltre a Sergio Castellitto, nei panni di Boccaccio, che trova una sua dimensione dimessa e meno gigionesca, va sottolineata la prova di Alessandro Sperduti che ha saputo restituire al suo giovane Dante il dolore di un amore perduto come quello della musa Beatrice e la passione ante litteram un po’ bohémien per la poesia, che sentiamo essere sua vera compagna e consolatrice. Così con le ultime parole di Boccaccio capiremo quanto quei versi sappiano contenere un’eternità terrena, ma con uno sguardo rivolto quel Dio che esiste alla fine di tutti i desideri.