La stanza chiusa: Ferite di Vittorio Rifranti

Un dramma gotico che distrae il mistero in una tensione tutta esistenziale, sospesa tra la vita e la morte come fosse un amore in bilico tra il momento e l’eternità: con Ferite Vittorio Rifranti conferma lo spessore morale delle strutture psicologiche che reggono da sempre i suoi film (Tagliare le parti in grigio, Pardo per l’Opera Prima a Locarno 2007, poi I passi leggeri e prima ancora un mediometraggio giovanile, L’attesa, col quale si palesò a Bellaria nel lontano ’92), incide la materia classica della drammaturgia per studiarne la tenuta a confronto con i ritmi di una quotidianità su cui grava il peso del vivere. Non è certo un approccio realistico il suo, se si cerca la verità bisogna guardare altrove, perché, come dimostra anche Ferite, Vittorio Rifranti è un autore che cristallizza le figure, gli ambienti, le azioni e i sentimenti in uno spazio morale nel quale agiscono come messi alla prova dell’esistere. Bisogna tornare al primo Olmi (quello pre Albero degli zoccoli, per intenderci), col quale del resto ha studiato a Ipotesi Cinema, per trovare l’alveo in cui scorre il suo cinema.Ferite sarebbe un thriller psicologico se si affidasse alle strutture di genere. Ma – per quanto implicitamente citi classici di Powell & Pressburger (L’occhio che uccide), Hitchcock (Rebecca) o Ulmer (The Black Cat) – quello che evoca Rifranti in questo suo nuovo film non è uno spazio mentale nutrito da passioni violente e gesti efferati, quanto piuttosto un luogo quasi astratto in cui i personaggi condividono ossessioni intime che si incarnano in un languore esistenziale quasi indefinito, come stati d’animo che occupano la loro mente e le loro azioni, battendo il tempo sospeso del loro profondo scontento.

 

 

La matrice cui si affida Ferite è quella della affabulazione gotica in cui l’ossessione d’amore si traduce in possessione che cristallizza il tempo definitivo della morte, ma Rifranti applica il tutto a personaggi che appartengono alla sfera della narrazione esistenziale piuttosto che a quella meramente fisica, corporea. Non ci sono passione e sangue in gioco, ma sentimenti che cercano pace e ferite malamente cicatrizzate: sullo sfondo c’è Dostoevskij, colto sul crinale indefinito della sua opera giovanile incompiuta, Netočka Nezvanova, che Emanuele Dominici sta portando in scena, attraversando un processo creativo irrisolto, problematico prima nella scelta della protagonista, che ricade su Irene, e poi nel rapporto tra l’attrice, il personaggio che interpreta e le segrete ossessioni che nutrono il regista. Il gioco sentimentale scavalca la scena e supera la porta della mente, per entrare nelle stanze della vita di Emanuele: la sua casa è un comodo antro di solitudine in cui ospita le donne che attrae. Come Tania, la giovane cameriera del bar che instaura un rapporto alla pari con lui, e come la stessa Irene, che cerca la via d’accesso alla sua Netočka scenica attraversando un innamoramento che alla fine coinvolge lo stesso Emanuele.

 

 

Ma il passato dell’uomo è una stanza chiusa, in cui custodisce segreti cristallizzati nelle immagini di donne e nei fotogrammi di un vecchio super8, che racconta il languore di un amore lontano e perduto, che ha segnato la sua esistenza e nutre le sue ombre. Vittorio Rifranti osserva i suoi personaggi, si lascia prendere dal loro profondo malessere e lo traduce in uno spazio scenico puntuale, risuonante di silenzi e battute scandite con la precisione delle frasi. Non c’è nulla di naturalistico nella sua messa in scena perché l’universo esistenziale a cui fa riferimento da sempre questo regista è uno spazio drammaturgico in cui i drammi incidono i corpi dei suoi personaggi come Ferite, per l’appunto, come fenditure nella carne cercate più o meno consciamente (Tagliare le parti in grigio), o come dispersioni volontarie nel dolore dell’esistenza, che non ha soluzione se non il farsene profondamente carico (I passi leggeri). Con Ferite Vittorio Rifranti conferma il suo cinema e in qualche modo pone un sigillo alla sua poetica, ribadendo uno stile e un’argomentazione che gli appartengono profondamente e che sembrano in qualche modo cercare una via d’uscita verso una maggiore libertà. C’è bisogno che la vita si impossessi un po’ della sua scena, liberi il gioco tra i personaggi, le loro emozioni e la tensione della sua regia, che è sempre così profonda e consapevole. Un assaggio ce lo aveva dato con un notevolissimo cortometraggio del 2020, La guarigione, e lo attendiamo ora con il suo prossimo film, Gli assenti, al quale sta già lavorando.