I Kaleo sono un’ottima band rock-blues americana, però vengono dall’Islanda. Certo, anni fa si sono trasferiti ad Austin per raggiungere la sorgente della musica che li ha formati e influenzati in modo definitivo. Passano molto tempo negli Stati Uniti ma il legame indissolubile con i lunghi inverni d’Islanda, dove ogni storia è un mondo sospeso tra la terra e il cielo, come una parabola dell’esistenza, non può e non deve essere reciso. Nel loro concerto per Tener-a-mente 2023 hanno proposto una scaletta nella quale gli echi del Blues del Delta erano chiari e forti (si veda la palpitante Way Down We Go). Il loro Fight or Flight World Tour sembrava non finire mai: dopo che nel 2022 c’erano stati un centinaio di live, quest’anno era prevista una coda che li avrebbe dovuti vedere in tour con i Greta Van Fleet ma non ci sarà. I Kaleo hanno alzato bandiera bianca e dopo la conclusione delle date europee si fermano per “ricaricarsi e concentrarsi”. E non è una sorpresa vista l’energia e la potenza che portano sul palco. Il frontman Jokull Juliusson, alias J.J., domina la scena e cavalca il trip americano con mestiere e consapevolezza. I Kaleo sono musicisti seri, puntigliosi e nordici nella loro freddezza pronta a sciogliersi in ballate: impressionante la resa dal vivo della setosa I Can’t Go On Without You, con J.J che ha fischiato l’apertura e la chiusura, come avviene nell’album, senza nessun timore o incertezza. E quando la band entra nella modalità acustica e spensierata tutti i componenti (J.J., Davíð Antonsson, Daníel Kristjánsson, Rubin Pollock, Þorleifur Gaukur Davíðsson) partecipano convinti alla parte vocale di Automobile. Per la serie: voci intrecciate e sognanti accordi di chitarre acustiche. Audace l’idea di proporre Vor í Vaglaskógi, struggente brano in islandese che racconta la vita nell’isola: La sera è nostra e anche la primavera, intorno a Vaglaskóg / Accampiamoci nella torba di bacche verdi.
Quando infilano la spina i Kaleo non fanno prigionieri, suono duro, ondulato, perfido. Spontaneità e immediatezza. Una volta ho letto sul Guardian che nella loro Hot Blood c’è il sangue dei Black Keys. Un rock con la voce secca e profonda che racconta storie (alle volte con testi e riferimenti un po’ basici: alcol, Mississippi, amore, il diavolo, ossa, polvere…) e in alcune occasioni lancia anatemi sostenuto da un battere vigoroso, dalle chitarre infiammate e dal basso imperterrito e (giustamente) presuntuoso. Un suono che costringe all’ascolto. Il meglio arriva quando il blues si riannoda e prende il comando della scena. E poi il puro divertimento di canzoni come Rock ’n’ Roller o Hey Gringo, dove il pubblico viene chiamato a cantare e a rispondere alla band: ventate vocali che riescono ad attirare in pianeti lontani.
La foto di apertura è di Antonio Martella.