New York, inizio anni Settanta. Donald Trump è il rampollo emergente di una famiglia di imprenditori edili, nato nel Queens e desideroso di conquistare Manhattan. Il suo sogno è quello di rilevare un albergo nel centro della città e trasformarlo in un hotel di lusso, tra il Chrysler Building e la Grand Central Station, luoghi iconici ormai in pasto al degrado che soffoca la metropoli sull’orlo della bancarotta. Trump guarda dritto verso il futuro ma ha delle grane con la legge: un caso di discriminazione razziale riguardante gli affitti degli appartamenti di proprietà di famiglia minaccia la sua solidità. La sua ambizione lo porta a osservare con cura maniacale il jet-set newyorchese, a entrare nei suoi locali simbolici, a immaginare con spregiudicatezza il proprio futuro. Ed è proprio in uno di questi locali che incontra Roy Cohn, avvocato dall’aura mitica e dalle losche conoscenze, eminenza grigia dietro la condanna a morte per spionaggio dei coniugi Rosenberg e collaboratore mastino a fianco del senatore McCarthy per reprimere il comunismo e l’omosessualità nella società americana, fanatico di patriottismo e potere. The Apprentice, escursione americana dell’iraniano-svedese Ali Abbasi, è in realtà il racconto di questa relazione – felice e tossica, illegale ed entusiasmante – destinata a cambiare il profilo di New York e, in prospettiva, a determinare una deriva populista per la politica statunitense. Il film segue l’irresistibile ascesa di Trump, protetto e coperto dagli appoggi politico-mafiosi di Cohn, capace di farsi strada a spallate, tra corruzione e minacce, fino a diventare l’imprenditore-star della metropoli.
Si parte da Nixon passando dall’era Carter fino a Reagan e alla sua politica economica ultraliberista: Trump costruisce il suo impero apparentemente senza sforzo. Favori politici e fiscali, prestiti e anticipi, progetti faraonici senza copertura che, come in un incantesimo, prendono corpo e ridisegnano il contesto urbanistico-sociale di New York, di Atlantic City, dell’America come concetto. The Apprentice racconta questa estremizzazione dell’american dream con gli strumenti della satira e le forme della commedia. Sebastian Stan tratteggia Trump come un brillante cialtrone, un venditore ossessivo, un uomo pronto a tutto per costruire la sua immagine bigger than life. Più sfaccettata è la rappresentazione di Cohn (Jeremy Strong, dall’andamento luciferino squarciato da istanti improvvisi di tenerezza), vero deuteragonista della storia: un personaggio maledetto – un tocco di Shakespeare e uno di Scorsese – dedito al controllo del potere, ossessionato dalla forza ricattatoria della politica, padrino maledetto cresciuto all’ombra della protezione della legge. The Apprentice cerca di mimetizzarsi con la storia che racconta – dall’alba dei Settanta al 1986 immerso nel cieco edonismo reaganiano – ricostruendo stili e tecnologie visuali: dall’immagine granulosa e vintage di una finta pellicola all’ostentato low-fi dei materiali magnetici. L’operazione resta un po’ in superficie ma la quadratura stilistica e la solidità dell’impianto narrativo costruiscono una forma riuscita di entertainment.
La sensazione, nonostante gli ovvi riferimenti cinematografici al cinema del tempo, è che l’impianto ricalchi quello oggi in voga nelle piattaforme. The Apprentice (in concorso a Cannes 77) sembra a tratti una puntata estrapolata da un linguaggio seriale, incapace di portare fino in fondo le questioni sollevate dalle potenzialità del racconto. Si vorrebbe sapere di più, si vorrebbe sapere meglio: come se un prima e un dopo fosse destinato in qualche modo ad apparire. Abbasi ha il mestiere necessario per non abbassare l’attenzione, per mantenere una certa brillantezza di fondo che vivifica il film. Però la mano autoriale a tratti tituba e balbetta di fronte a una rappresentazione in fondo parziale – feroce ma non troppo, tagliente quanto basta – di un protagonista inquietante del nostro tempo. Il “ritratto di un presidente da giovane” che avrebbe giovato di un qualche sforzo analitico in più. Trump e Cohn sono personaggi diabolici, dominati da ossessioni e debolezze, che però non riescono mai ad assurgere al tragico, che sarebbe stata la cifra stilistica naturale delle loro azioni. La miscela di alto e basso – di commedia satirica e tragedia collettiva – non ha trovato perfettamente il proprio equilibrio e The Apprentice si limita a essere un esempio di intrattenimento intelligente, inciampando un gradino sotto le proprie potenzialità.