Ci si attenderebbe un altro film con, sullo sfondo, un’altra drammatica storia di immigrazione, tutta da raccontare tra approdi calabresi e tragedie personali, solitudine e maltrattamenti. Ma questo film, nato da una coproduzione a più voci che vede insieme capitali svedesi, lussemburghesi, americani e soldi pubblici delle locali Film Commission calabrese e siciliana, sa sorprendere raccontando un’altra faccia dell’immigrazione e riuscendo a trarre, da un quadro ormai consueto come quello che in parte conosciamo delle storie di degrado dell’immigrazione, un racconto originale con pochi buoni e moltissimi, invece, cattivi. E questo a cominciare dalla sua protagonista Almaz detta Madame Luna, cui dà voce e volto la sorprendente Meninet Abraha Teferi, italiana di origini eritree. Almaz non è una donna con innata la bontà d’animo. Il suo pregresso come ufficiale dell’esercito eritreo ne ha fatto una donna scaltra e per nulla altruista. Pur mescolandosi con i profughi sbarcati sulle coste del lametino calabrese, si distingue presto e il suo poliglottismo – dall’inglese al tigrino, dal francese all’italiano – sa condurla ben presto in cima alla piramide che domina anche il Centro di accoglienza. Nunzia (Claudia Potenza), la giovane volontaria del Centro, in realtà fa parte di una famiglia della ‘ndrangheta calabrese che gestisce, insieme al fratello senza scrupoli, gli immigrati utilizzandoli, a 15 euro al giorno, come braccianti agricoli oppure come manovali nei cantieri edili che controlla. Almaz arriva a collaborare con i padroni e ottiene i suoi privilegi. Ma il suo passato di mercante di uomini la perseguita e la giovane e indifesa Eli, che ha visto il fratello imprigionato nelle carceri libiche, diventa la sua cattiva coscienza.
È nell’amoralità di Almaz la novità del film, come si intuisce, in quel collaborazionismo che sa di corruzione dei sentimenti naturali, che Madame Luna sa trovare in un ragionamento a contrario il senso specifico e gradatamente perduto di un sentire umano che non è solo solidarietà, ma anche ripudio di ogni sottomissione. Una percezione che il profitto sulla morte e il proliferare della cronaca, che ha abbassato con l’abitudine il grado di partecipazione emotiva, ha fatto in gran parte dissolvere. Madame Luna/Almaz è prigioniera di questo vortice tra desiderio di sicurezza, benessere e dominio. Con Eli, fragile e sprovveduta davanti al mondo, qualcosa si rompe nell’inflessibilità di quel controllo che permette ad Almaz di dominare ogni situazione. La redenzione si manifesta in una violenza accecata dal fulmine sulla via di Damasco. È un percorso tardivo quello di Almaz, una maturazione lenta ma inesorabile della coscienza. Il film è il racconto della costruzione di un percorso accidentato e per nulla semplice, della progressiva consapevolezza di un tradimento popolato da cadaveri galleggianti, da dolori non narrabili. Madame Luna è quindi un racconto sull’etica delle relazioni, una indagine sull’etica dello scambio ai tempi della corruzione, del profitto attraverso lo sfruttamento come mezzo di affermazione personale. Madame Luna cerca una via per una didattica della morale e Almaz diventa al tempo stesso il soggetto narrato e l’atto mancato della rivalsa sul proprio passato, con dentro la vendetta contro ogni violenza subita.
Tutto accade sotto gli ulivi calabresi o negli spazi enormi e disanimanti dei non luoghi, quegli anonimi locali alla moda delle nostre città, nel rispetto – una volta tanto – della parlata dialettale e nella credibilità di una irrimediabile spietatezza della malavita organizzata senza morale. Madame Luna sa disfarsi dei luoghi comuni e intercettare un sentimento che serpeggia dentro il drammatico mondo dell’immigrazione, quello del tradimento di ogni origine, un inganno che vediamo diventare cronaca nel commercio di esseri umani, nel nuovo schiavismo che non ha confini e che parteggia sempre per i vincenti. Anche Almaz è tra questi, in questa cupa parabola sulla morale, ma la mutazione lenisce il dolore che quasi non avverte su quella spiaggia che la redime e la crocifigge.