Arrampicato sulla Statua della Libertà, Philippe Petit sbuca dalle nuvole per raccontarci della sua impresa folle e anarchica. Salire sulla cima di una delle Torri Gemelle di New York e attraversare i sessanta metri di vuoto che la separano dall’altra, cammimando semplicemente su un cavo d’acciaio. È tutto qui The Walk, ennesimo film di Robert Zemeckis sulla sfida all’impossibile che sta conficcata dentro il cuore dei suoi personaggi, e cioè su quello che più ci piace del cinema. Quindi non c’era soggetto migliore dell’autobiografia del funambolo francese più pazzo del mondo To Reach the Clouds per tornare a viaggiare dentro la favola, di un mondo capovolto. Perché quello che qui fa il regista di Forrest Gump è, di nuovo, trasformare in finzione la realtà, estremizzare l’illusione che naturalmente il suo sguardo scopre nel reale. E così la Parigi del giovane Petit sembra un set di cartapesta per il film, ma di fatto rappresenta il primo set dove mettere in scena le prove di quel gesto “insensato” che ancora vaga nella sua mente. Ascesa che parte da un’idea bambina, e si affaccia sull’idea che dovrà cambiare le prospettive e strappare dallo sguardo di tutti, spettatori compresi, ogni preconcetto, ogni freno e chiusura. La bellezza di un gesto in se stesso, senza indagare sui suoi significati, che tanto affioreranno da soli nel fare e nell’aspettare. Si procede qui per punti (troppo) schematici: dall’infanzia di un ragazzino in cerca del proprio futuro, alla giovinezza randagia di un sognatore, ansioso di trovare un posto dove legare la sua corda. E lo fa più volte, sempre più in alto, tra gli alberi, sopra un torrente, tra le torri di Notre Dame. E attorno a lui accorrono sognatori convinti, che desiderano starlo a guardare. Tra loro un fotografo, un giovane idealista che soffre di vertigini, una cantante di strada e il maestro funambolo, da cui Petit impara a superare il confine delle illusioni.
Dall’alto di queste passeggiate nel cielo si vive in un paesaggio quasi senza sonoro. E, infatti, Petit cade quando si lascia travolgere dai rumori. Come a voler sottolineare che queste imprese non sono fatte per avere un mare di folla, ma per cogliere quell’istante come tale, esasperandolo nell’attesa e nella lunga preparazione, e prolungandolo negli andirivieni sulla corda, tra poliziotti, incontri inaspettati e visioni imprevedibili. Il fatto è, però, che nonostante la bellezza delle invenzioni di Zemeckis, la purezza delle ossessioni raccontate resta spesso un’ipotesi, il progetto di quell’ossessione, l’impresa impossibile hanno perso la dimensione epica e umana, con tutto il côté drammatico e reale, il sudore e i corpi, le emozioni palpabili e iperboliche. Al punto che in alcuni momenti il racconto si limita al ritmato procedere del thriller, la ricostruzione geometrica di un “colpo” da portare a termine – come fosse la rapina ad una banca – invece di una performance da mettere in scena. Certo, Petit, che cammina nel vuoto tra le nuvole, è un’immagine assoluta e radiosa nella profondità spaziale e nella perentoria definizione dell’illusione come motore d’ispirazione. Anche lo sguardo sulla Manhattan dei primi anni Settanta, ricostruita in digitale, è la teorica rivendicazione del sogno, dell’illusione che si rivela nel gesto, della leggerezza che si impone sopra ogni regola. Ma tutto sembra appena accennato, dichiarato e, paradossalmente, non agito. Racconto di parole, laddove avremmo voluto sentire la vertigine, dall’alto verso il basso e viceversa, il vuoto dello spazio sotto i piedi, l’aria tra le ali di un gabbiano e l’indifferente vita che, nonostante tutto continua tutta intorno coi suoi ritmi disuguali (e che in verità è accennata, come fosse poesia, incarnata nello sconosciuto che sale sulla torre e se ne va nel mistero).“Per sempre” dice alla fine Petit dopo la sua impresa. È scritto sul permesso ottenuto dalle autorità e rappresenta il lasciapassare per tornare sulla terrazza di quelle due torri, che, con lui, hanno sfidato il cielo.