Animotion: Fino a che saremo qui, Il robot selvaggio di Chris Sanders

Non è dato sapere se un lustro sia un periodo sufficiente per risollevare le sorti di una casa di produzione, soprattutto in riferimento alle insidie che il mercato del cinema d’animazione deve affrontare e, in modo più esteso, in relazione alle complesse dinamiche in cui si trova a galleggiare il “cinema per famiglie”, tuttavia certi segnali non possono essere trascurati perché risultano indicativi di come una grande major come Dreamworks Animation stia vivendo un nuovo corso, decisamente tra i più ispirati e funzionali della sua quasi trentennale storia. Nel post pandemia la casa di Glendale ha inanellato una serie di titoli che hanno saputo destreggiarsi brillantemente nel fitto bosco dell’animazione, sia in termini di originalità delle proposte, sia in termini di riscrittura di nuovi capitoli di narrazioni già affermate, riuscendo così a scrollarsi di dosso le delusioni dei deboli Ruby Gillman – La ragazza con i tentacoli (2023) e Trolls 3 – Tutti insieme (2023). Se a questo aggiungiamo pure l’impegno nel campo seriale totalmente espanso (una ventina di progetti dal 2020 ad oggi), comprendiamo che da quelle parti le cose stiano andando per il verso giusto.Cinque anni in cui Dreamworks ha saputo rispondere alla concorrenza con sorprendente costanza, tanto da cominciare a credere che non si tratti di una semplice coincidenza ma che un principio di cambiamento sia in atto, come appura la favorevole accoglienza riservata a Troppo cattivi (Perifel, 2022), Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (Crawford, 2022), Orion e il Buio (Charmatz, 2024) e Kung Fu Panda 4 (Mitchell, 2024), film che hanno colpito sia dal punto di vista creativo e sperimentale, sia dal punto di vista dei risultati raccolti al botteghino rilanciando franchise rimasti nell’ombra per anni.

 

 
Titoli che condividono l’idea forte di un cinema capovolto, fondato sul principio del rovesciamento dell’ordine, del ribaltamento delle aspettative, che rinuncia alle riduzioni del manicheismo semplificato, imprevedibile, indifferentemente meraviglioso e bizzarro. È un cinema sovversivo che altera gli schemi codificati del mercato e il sistema di attese dello spettatore; un affabulatore che può produrre simpatia e complicità, risate a crepapelle, angoscia, paura o speranza ma anche grande commozione. Un cinema che sbriciola, con la sua forma ibrida, le regole classiche della cosiddetta “normalità” dell’intrattenimento animato. E a questo mondo abitato da sovversivi si aggiunge pure l’ultimo arrivato, Il robot selvaggio, firmato da Chris Sanders, film manifesto di una poetica rilanciata proprio in questi ultimi anni che ha scelto di correre sul crinale dei più profondi e destabilizzanti luoghi comuni della cultura occidentale per inquadrarli, smontarli e dotarli di nuova forza. Come già accaduto altrove, Il robot selvaggio conferma l’idea di un cinema che entra negli ingranaggi dell’amicizia per scovarne i tesori, prende il concetto di “straniero” e lo riorienta accostandolo a quello di ospite, cattura il fantastico, allarga la famiglia, ridisegna il sogno e rincorre il fantasma o il feticcio dell’identità senza rifiutare l’assimilazione dell’alterità. La sua forza risiede nella forma postmoderna capace di coniugare le istanze fantascientifiche a quelle melodrammatiche e intrecciare la sensibilità di un atipico coming of age con la leggerezza di un feel good movie che presenta riverberi politici di assoluta attualità.

 

 
Uno stile che trasforma la CGI in qualcosa di sgraziato che sembra rivendicare il principio anarchico di un segno che si oppone al fotorealismo assoluto e perfetto. Insomma, è evidente che di carne sul fuoco ce ne sia molta e questo potrebbe risultare un limite ma, essendoci Chris Sanders a dirigere (con la supervisione di Dean DeBlois come produttore esecutivo) e facendosi ispirare dal primo volume della trilogia firmata da Peter Brown, l’illustratore autore della serie di libri da cui è tratto il film, l’operazione mantiene un solido equilibrio in grado di far girare tutti gli elementi in modo funzionale e assumere così una dimensione autoriale, difficile da riscontrare altrove. Volendo accostarlo ad altro, tra i tanti riferimenti visivi, forse quello più incline alla dimensione di Il robot selvaggio è Big Hero 6. Per quanto già vista, la vicenda offre non pochi spunti di rottura con la tradizione: precipitato dal cielo su una scogliera di un’isola, un robot viene attivato incidentalmente dalla fauna locale. Programmato per servire, cercherà di fare amicizia con gli animali ma verrà respinto finché un giorno non entra in contatto con l’uovo di un’oca. Così il robot Rozzum 7134, la cui prima immagine proviene dal suo occhio, proietterà il suo sguardo sulla piccola creatura, diventerà la madre adottiva della piccola oca, per educarlo si affiderà ai consigli di un’astuta e golosa volpe di nome Fink e cercherà di insegnargli a volare in tempo per la migrazione. Impresa non facile perché l’oca ha ali minute e gli altri membri della sua specie non vedono di buon occhio che sia cresciuta dal “mostruoso” robot. È una storia di integrazione che però riflette sul principio di accoglienza da un punto di vista insolito in quanto si spinge oltre le apparenze e demitizza il ruolo della natura, spesso stigmatizzata nel cinema d’animazione. E qui entra in gioco l’abilità di Sanders che all’interno del suo cinema non ha mai nascosto l’ingombrante presenza dell’istinto al centro di un conflitto estremo tra la cultura e la civiltà: qui la natura si presenta inospitale, riluttante, spregevole, spaventosa e, sebbene la cura amorevole del robot sia l’affetto più evidente, ciò che permetterà davvero il radicale cambiamento, l’inversione di rotta, piuttosto sarà la scelta di condividere gli spazi e stringersi in comunità. Si assume più di un rischio: dalla riflessione sul “morire”, già esplorata altrove, soprattutto in Gatto con gli stivali 2, al tentativo di esprimere e rappresentare un’idea di mondo in cui la guerra è bandita (il principio della non-violenza accompagna tante figure di questo cinema, da Po passando per Shrek) a scapito di una pace conquistata con passione e fedeltà, seguendo la lezione offerta dalla pietra miliare di questo sguardo che resta la saga di Dragon trainer.

 

 
Cinema di isole e sistemi chiusi, ma anche di ali da spiegare in cielo, è anche occupato da macchine, lavoro e grandi sogni, come sempre. Tuttavia prima ancora che un cliché mélo, il volo diventa rimando a una perduta leggerezza che riflette la presenza di un desiderio vivo, ripetutamente rinnovato e in grado di spingersi sempre più in alto. Così per DreamWorks, sogno e lavoro, irreale e reale, natura e tecnica, sintetizzano le due anime della sua storia produttiva e dove il volo, spesso al centro della narrazione, riguarda un modo di essere più che un’azione da compiere. Sono due le scene dell’immaginario DreamWorks che meglio sintetizzano questo approccio rilanciato e tradotto nuovamente da Il robot selvaggio, in particolare quando si costruisce il nido-casa o quando si deve affrontare l’incendio nella foresta. Una si colloca nel finale di I Croods quando Grug “costruisce” la macchina volante: la relazione tra ciò che la macchina è (un ammasso di avanzi, un riciclo vivente composto da animali e ossa) e ciò che la macchina rappresenta (una macchina del tempo che immerge nel futuro ma anche lo strumento salvifico corrispettivo dell’arca di Noè, un ponte che unisce due mondi ma anche il simbolo di un avvenuto e radicale cambiamento) suggerisce il senso di una relazione fondamentale che riguarda anche la risemantizzazione dei sistemi chiusi (come le isole di Madagascar e Dragon Trainer, la colonia di formiche in Z la formica, l’alveare in Bee Movie, il pollaio in Galline in fuga, le fognature in Giù per il tubo, l’Egitto per gli ebrei in Il principe d’Egitto, il quartiere ipermoderno in La gang del bosco, tutti luoghi accoglienti divenuti inospitali) – da cui i personaggi prendono le distanze pur ammettendo di appartenervi – e che rivela la presenza di una macchina-cinema impegnata a definire in profondità la possibilità di un mondo altro. L’altra scena si trova in Dragon Trainer 2 e si riferisce alla funzione della tuta alare indossata da Hiccup: frutto del suo ingegno ma soprattutto “benefit” ricavato dalla relazione speciale con i draghi, essa consegna allo spettatore l’ennesima provocazione di DreamWorks nei confronti dello stretto legame tecnica-natura. Hiccup è diventato un drago grazie alla cooperazione con la natura e non in virtù di una sostituzione. Non potrà fare a meno dell’altro e, anzi, questa conquista ottenuta mediante la cultura esalterà i connotati del suo essere umano poiché gli garantirà la stima di (quasi) tutta la sua comunità e aumenterà l’interazione affettiva con l’amico-drago, Sdentato. In attesa di almeno un sequel, Il robot selvaggio si inserisce coerentemente nella vasta filmografia DreamWorks affermando “fino a che saremo qui” che ad essere speciali sono gli affetti, sempre e comunque. Cinema resistente e di salvezza.