Sam Shepard ha dichiarato di aver scritto Fool for Love dopo aver conosciuto Jessica Lange e aver mandato a monte il suo precedente matrimonio. Una sorta di sfogo emozionale per quello che aveva passato, ma anche di terapia. Siamo nel 1983, l’opera, diretta da Shepard, debutta l’8 febbraio al Magic Theatre di San Francisco con Kathy Bates e Ed Harris nei ruoli principali e inizia da lì il suo fortunato viaggio. Nel 1985, su impulso di Shepard che ne cura l’adattamento cinematografico, viene portata sul grande schermo da Robert Altman interpretata da Kim Basinger (che in realtà sostituì Jessica Lange rimasta incinta poco prima dell’inizio delle riprese), lo stesso Shepard (nel ruolo di Eddie), Harry Dean Stanton e Randy Quaid. Fulvio Pepe (regista nato nel 1972 – reduce dal grande successo di Gyula. Una piccola storia d’amore, una favola moderna da lui scritta e diretta che ha girato l’Italia conquistando gli spettatori – ma con all’attivo anche una solida carriera di attore teatrale e con alcune incursioni cinematografiche e televisive) dà la sua versione di questa oscura storia di famiglia, in cui i personaggi continuano a ripetere gli stessi errori, quasi non ci fosse una via d’uscita. Abbiamo parlato con lui di Fool for Love, che debutta al TeatroDue di Parma il 6 aprile.
Come hai reso questa storia che è, per definizione, molto americana (si svolge in un motel, il protagonista è un cowboy…)?
All’inizio questo era il motivo che non mi convinceva. Quando Paola Donati, direttore della Fondazione Teatro Due, mi ha proposto il testo di Shepard – indubbiamente interessante per le linee di contenuto che lo ancorano alla contemporaneità – subito mi ha spaventato e, a caldo, ho risposto che non ero interessato proprio per il suo intrinseco radicamento alla cultura americana che non mi appartiene e che sento lontana. Legavo il testo indissolubilmente a quel mondo: il motel è del tutto improducibile, non abbiamo un “non luogo” di questo tipo in Italia. Negli Stati Uniti quando si parla di motel, si fa immediatamente riferimento a un contesto e a personaggi ben precisi e immediatamente riconoscibili, è sufficiente una determinata scenografia con certi colori, le tendine… e già capisci chi lo vive, ma in Italia non abbiamo un immaginario legato al motel.
Poi che cosa è successo?
Ho attraversato un periodo di grande crisi – che può essere molto produttiva – e ho ripensato alla proposta rendendomi conto che aveva ragione Paola Donati. È davvero una storia universale, incentrata su un amore perso, estremamente evocativa. È anche una storia oscura: ci sono due personaggi in un contesto onirico che permette loro di recuperare un passato comune. La sindrome dell’abbandono è il baricentro del testo, l’amore incestuoso, e dunque amorale, ne è solo una tangente, causa di un trauma precedente, non sua fonte. May e Eddie si sono amati senza sapere di essere fratellastri e continuano a farlo, nonostante il trauma della scoperta del padre comune che si manifesta in forma di fantasma. Ho scelto di mettere in scena il trauma e il vecchio padre nel mio spettacolo compare come una presenza fantasmatica, inoltre Eddie e May continuano a riproporre le stesse dinamiche di un passato che rifiutano (Eddie si comporta come il padre, May come la madre). I due rifiutano le figure del padre e della madre, ma ne riproducono le stesse identiche dinamiche. Naturalmente è stata anche l’occasione per fare un grande lavoro sugli attori.
Anche qui le colpe dei padri ricadono sui figli…
È un aspetto determinante. Dal punto di vista psicanalitico e psichiatrico la vicenda ha tantissimi risvolti. I genitori sono entrambi figure negative, ma i figli ostinatamente si comportano come loro, pur essendo consapevoli di farlo. C’è un’emotività molto forte, ma Eddie e May sono senza gli strumenti per decodificarla, non riescono a gestirla, ad addomesticarla, non è un fuoco che li riscalda, ma che li brucia. Non recuperano nulla del loro passato, sono contro tutto, il padre è visto solo come una figura da condannare.
Come hai lavorato con gli attori?
L’unico strumento che avevo per risolvere una situazione così complicata era fare appello alla mia sensibilità attoriale prima ancora che registica. Ho quindi reso Eddie e May come personaggi molto fragili, quasi dei bambini, che estromettono il trauma subìto in modo anche fisico. Sono personaggi teneri, ipnotici rispetto al pubblico nel loro esprimere un sentimento rachitico.
Hai visto Follia d’amore di Altman?
Sì, ma non è uno dei suoi film più riusciti. Penso si sia divertito nella fotografia, ma per il resto non è un granché.
Il cinema è per te un punto di riferimento? Te lo chiedo perché alcune scene di Gyula sono costruite con un montaggio alternato.
Lo faccio mio malgrado. Devo ammettere che non sopporto il cinema americano. Un tempo mi attraeva, ma a un certo punto deve essere successo qualcosa e ora lo rifiuto, mi annoia ferocemente. Poi ci sono filoni che mi piacciono più di altri, ma è un gusto personale. Conosco più le leggi teatrali di quelle cinematografiche, il mio sviluppo artistico è tutto interno alla scatola teatrale. Però è vero che il montaggio regola sia il cinema che il teatro…
Con Gyula, la cui lunga tournée si è chiusa da poco, ti sei scoperto anche drammaturgo.
In realtà avevo già scritto e portato in scena un monologo in cui il perno narrativo è il lavoro dell’attore. Si intitola Finzione in tre capitoli e una premessa e sono arrivato alla diciottesima riedizione/rilettura.
E ora stai scrivendo qualcos’altro?
Sto lavorando a qualcosa, ma per il momento preferisco non parlarne.
Tra essere attore e regista cosa scegli?
Domanda difficile. Non riesco a pormi obiettivi carrieristici, da regista mi piace fare uno spettacolo se ho qualcosa da dire, mentre il percorso attoriale mi ispira sempre. Diciamo che per ora mi sposto tra uno e l’altro, navigando a vista…
Parma TeatroDue dal 6 al 10 aprile
www.teatrodue.org