All’inizio sembra una storia piccola, di quelle che si perdono nelle praterie della Virginia, ma poi, con un tono che resta sommesso per tutto il film, le cose si fanno imponenti e aprono la strada ad una ricostruzione dell’America di fine anni Cinquanta puntuale e senza retorica. Jeff Nichols riprende fatti realmente accaduti nell’arco di quasi dieci anni, tra il 1958 e il 1967, che contribuirono ad abolire il divieto del matrimonio misto all’epoca ancora in vigore in molti Stati. Al centro un uomo e una donna. Lui bianco, lei di padre afroamericano e madre nativa americana. Una coppia mista, che, però, nella cittadina di Central Point non suscita alcuno scandalo. A loro si avvicina con scrupolo Nichols e li ritrae come a voler cogliere la normalità della vita quotidiana, come la foto che li ritrae sorridenti insieme sul divano di casa, che fu pubblicata dalla rivista LIFE. La giovinezza, l’amore, i progetti e il loro legame che si rafforza. Nulla sembra poter andare storto, ma è solo un’illusione, perché il fatto di aver violato la legge non può che far rumore. Inizia in questo modo un percorso di ripetizioni che stabiliscono la chiave del film. Come a voler ricreare al livello del discorso l’ingiusta realtà che i personaggi sono costretti a subire. Eccoli, allora, farsi protagonisti di un gioco di continui inizi. Fughe, ritorni, e ancora fughe e altri ritorni, tra Washington e la Virginia, dove Mildred Loving vuole far nascere i suoi figli e vederli crescere all’aria aperta, a dispetto della legge e della prigione.
Per apprezzare Loving, però, non bisogna aspettarsi un film sulla battaglia per i diritti civili. Nessuna marcia, nessun discorso, nessuno slogan. Quando l’avvocato chiede a Richard se ha qualcosa da dire al Giudice della Corte Suprema il giorno della sentenza finale, lui semplicemente risponde: “Solo che amo mia moglie”. Poche parole per dire molte cose. A partire dal fatto che Nichols non sceglie la strada delle rivendicazioni e dell’attivismo politico, appunto, ma quella del privato, aderendo allo sguardo quasi attonito dei protagonisti, costretti a vivere silenziosamente, dove nessuno li possa trovare.
Il regista di Mud e Take Shelter (entrambi ambientati nel Sud rurale degli Stati Uniti) è abile a gestire la tensione sottile, senza farla davvero mai sfociare in superficie, sa elaborare i fatti a partire dal non detto, descrivendo i personaggi con un semplice campo lungo, o un primo piano privo di ogni commento. Sono pochi i gesti, scarni i dialoghi – tranne quelli legati alla vicenda giuridica del finale – ma rappresentano la scelta centrale di un film lineare, che non aspira a cambiare le regole, ma si inserisce in una tendenza tutt’altro che scontata. L’aspirazione è quella di ritrarre le persone, i luoghi e i tempi nel modo più realista possibile, senza cedere mai alla tentazione della cronaca o della pura forma, eppure rendendo solida e concreta ogni inquadratura, dove i volti si rispecchiano nel paesaggio e il paesaggio si ritrova nel calore degli interni. Una piccola storia, dunque, che, però, ha scavato così tanto nella strada verso il conseguimento dei diritti civili.