Il primo salto è una religione senza Dio
Mario corre perché non sa stare fermo.
A sinistra c’è il Nulla.
A destra: tutto il resto.
«La vita inizia quando il dito preme A.»
Sul bordo dello schermo, Dio (minuscolo) ha messo un punto interrogativo giallo. Fluttua. Come una promessa.
Non ci sono istruzioni. Non c’è la mamma. Non c’è il libretto delle elementari con scritto: premi A e sii felice.
C’è un blocco.
E se lo colpisci esce un fungo.
E se non lo colpisci non esce niente.
E se salti male, muori.
E se non salti, sei già morto.
Il gioco non ti spiega.
Ti sputa.
Il primo salto non è un tutorial. È un atto di fede.
Non sai cosa c’è sotto.
Non sai quanto premere.
Non sai se cadi o voli.
Lo dice Miyamoto: «Il salto è l’elemento più importante del gioco».
Ma nessuno gli ha mai chiesto: importante per chi? Per cosa? Come?
Il fatto è che nell’ottantacinque saltare era l’unico modo per non diventare adulti.
Super Mario Bros. non è Pong.
Non è tennis.
Non è punteggio.
È un oracolo greco sotto acido.
Ogni salto è un esperimento.
Ogni caduta è il prezzo della scienza.
Ogni pixel è un apostolo.
Tocchi un goomba e muori.
Non lo sai prima. Ma lo impari.
Come quando da piccolo lecchi la presa elettrica.
Non c’è dialogo.
Non c’è testo.
Solo causa-effetto-effetto-effetto.
Come nella droga.
Come nell’amore.
Come in televisione.
Livello 1-1. Niente enigmi. Solo misteri.
Vai avanti. Non puoi tornare.
Hai capito?
Il fungo cresce.
Mario cresce.
Ma solo se lo hai fatto apparire.
Solo se hai avuto il coraggio di saltare senza sapere.
Il salto è la prima forma di intelligenza.
È il verbo che si fa carne.
È la grammatica del disastro.
Mushroom Kingdom è un mondo post-spiegazione
Il regno dei funghi non esiste.
O meglio: esiste mentre lo attraversi.
È un sogno generato da un errore di calcolo.
Tipo un delirio.
Tipo un’allucinazione.
Non si sa perché un idraulico italiano giapponese con la tuta da lavoro combatte le tartarughe.
Nessuno lo chiede.
Nessuno lo spiega.
È così. Punto.
Mushroom Kingdom è il contrario del realismo. È la logica delle fiabe se fossero disegnate da un ragioniere impazzito dopo trent’anni di calcolatrici.
Tipo Fantozzi.
Niente ha senso.
Eppure tutto funziona.
I tubi portano da qualche parte.
A volte.
Il castello è sempre alla fine.
Ma non c’è mai la principessa.
È in un altro castello.
Stronza.
Il gioco è una barzelletta senza battuta finale.
Si ride per disperazione.
Miyamoto ha detto: «Super Mario Bros. è un gioco atletico».
Ma anche il Minotauro correva.
Quel bastardo.
Anche noi.
Poveri disgraziati.
Lo chiamano ‘divertimento elettronico’.
Hai presente.
Nel regno dei funghi non si conquista nulla.
Si attraversa.
Si salta.
Si perde tempo, vite, pazienza.
L’intera giovinezza.
Ma si va avanti.
Perché il design è una trappola affettiva.
E ogni livello è solo un modo più intelligente per farti sentire stupido.
Il fungo non ti viene incontro.
Scappa.
È un dono che si rifiuta.
Come la felicità nei sabati pomeriggio degli anni Ottanta.
Mushroom Kingdom è una parabola sul consumo.
Ma a otto bit.
Nessuno ricorda la storia.
Solo il suono della bandierina che scende.
La scuola di Mario non ha banchi
Il gioco non ti insegna nulla.
Ti lascia morire.
Poi ti guarda.
Poi ti fa riprovare.
Non c’è maestro.
Non c’è Dio.
Non c’è Wikipedia.
Solo un goomba che avanza lento come una lezione di scienze quando sei malato.
Se non salti, muori.
Se salti male, muori.
Se salti bene, ti chiedi se è stato un caso.
Il blocco interrogativo non è un aiuto.
È una minaccia.
È il dubbio che fluttua.
Il fungo?
Sembra un nemico.
Poi ti tocca.
Poi cresci.
Poi ti senti potente.
Poi ti colpiscono.
Poi torni piccolo.
La crescita è reversibile. Come i traumi.
O le vacanze in campeggio.
Miyamoto, sempre lui, dice: «Volevamo che il giocatore capisse le regole del gioco senza spiegarle».
Come nella vita.
O nel capitalismo.
Il giornalista saputello dice che si tratta del «miglior tutorial mai creato».
Ma non è un tutorial.
È un esperimento sociale travestito da giocattolo.
Non separa il gioco dall’apprendimento.
Non dice: “adesso ti insegno”.
Dice: “vediamo quanto resisti”.
E tu resisti perché il tuo lavoro vero ti fa schifo.
I tubi sembrano barriere.
Poi scopri che uno è un portale.
Ma non te lo dicono.
Devi inginocchiarti sopra.
Spingere.
Soffrire.
I blocchi multipli sono ipotesi.
Colpiscili mille volte.
Forse esce una moneta.
Forse esce un sogno.
Forse niente.
Ma è lì che il gioco ti prende: nella speranza.
La pedagogia di Mario è la pedagogia del sospetto.
Ogni regola che hai imparato, domani sarà falsa.
Il tubo amico è diventato nemico.
Il salto che ti salvava, ora ti condanna.
Il mondo ti frega con il sorriso stampato.
La pedagogia di Mario è la pedagogia degli oppressi.
E forse anche dei repressi.
Non c’è conoscenza stabile.
Solo una mano che preme A.
E spera.
E cade.
E ricomincia.
Il tempo è un coltello appeso sopra la testa di Mario
In alto a destra: il timer.
Non è un orologio.
È una bomba a tempo.
Inizia a contare non appena tocchi il suolo.
Ogni secondo è una sottrazione.
Ogni passo, un addio.
Non c’è futuro, solo scadenza.
La morte non è fuori dal gioco.
È il gioco.
Se ti fermi, muori.
Se pensi, muori.
Se cerchi di capire, sei già morto.
Il tempo non premia la riflessione.
Premia il riflesso.
Miyamoto ha detto: «Volevamo una direzione chiara».
Avanti.
Ma avanti dove?
A destra, cazzo.
Il gioco non ti punisce.
Ti ammonisce.
Non ti urla: ti morde.
Ogni morte è una carezza con il pugno.
Ogni buco nel terreno è un esame a sorpresa.
Ogni contatto col fuoco è una lezione di chimica morale.
Qui puoi morire in una dozzina di modi.
Dodici?
Io ne ho trovati quindici.
Ogni morte è diversa.
Ma tutte hanno lo stesso sapore.
Retrò e alluminio.
Amianto e assenzio.
Super Mario Bros. è costruito per farti perdere.
Ma senza odio.
Come l’autobus che ti chiude le porte in faccia con dolcezza.
Quando mancano cento secondi la musica accelera.
Non cambia.
Si stringe.
Ti stringe lo sfintere.
È la colonna sonora di un attacco di panico a otto bit.
La ripetizione non è una condanna.
È un’illuminazione.
Rigiocare è ricordare.
Il goomba ti uccide.
Poi ti sfiora.
Poi lo schiacci senza pensare.
Il mondo è sempre uguale.
Tu no.
Il tempo non scorre.
Ti affonda.
Non è il contenitore del gioco.
È il materiale da costruzione.
Super Mario Bros. è fatto di secondi che esplodono.
Minus World è la verità. Il resto è storia.
Trentatude kilobyte.
Tutto il mondo.
Tutto.
I blocchi. I nemici. I cieli che non sono cieli.
Le nuvole.
L’acqua è un pattern che fa blup.
La lava è un’illusione ottica con la sindrome bipolare.
Super Mario Bros. è tanti pixel.
Pixel-spilli.
Pixel-freddi.
Pixel che non mentono mai perché non sanno mentire.
I Koopa sono goomba con la corazza.
I fiori sono skin.
I nemici condividono codice.
Come le fotocopiatrici rotte.
Miyamoto dice che il gioco non aveva spazio per tutto.
E allora tutto è poco.
Il fuoco mobile è un semicerchio impazzito.
La logica è la stessa dell’industria del fast food:
cambia il sapore, la base è uguale.
La ridondanza non è un errore.
È il cuore.
La ripetizione è amore.
Ma solo se sei dentro il codice.
Poi arriva il bug.
Minus World.
Il livello che non doveva esserci.
E invece c’è.
E non finisce.
E non muore.
E non salva.
È un mondo che non si presenta.
Ti ingloba.
Ti lascia camminare per sempre.
Senza respiro.
Senza motivo.
Non è un errore.
È una rivelazione.
Il gioco non si rompe.
Si apre.
Ti mostra il codice dietro la tenda.
Il Mago di Oz è un ingegnere ubriaco.
I blocchi a mattoni sembrano uguali.
Ma solo alcuni si rompono.
Solo se sei grande.
Solo se sei stato “potenziato”.
Non puoi saperlo.
Lo scopri colpendo.
Come con le persone.
Il mondo mente.
Il mondo è fatto per mentire.
Il giocatore impara a leggere gli inganni.
Non ci sono texture.
Solo intenzioni.
Nell’ottantacinque nessuno parlava di glitch art.
Ma Mario l’aveva già fatto.
Aveva già attraversato il mondo rotto.
E ci aveva detto:
«Benvenuto.
Questa è casa tua.»
Corpo muta, corpo mente, corpo lampeggia
All’inizio sei piccolo.
Una cosa rosa con i baffi.
Cammini come se ti avessero appena inventato.
Se tocchi qualcosa, muori.
Se non tocchi niente, esisti a malapena.
Sei una premessa.
Poi arriva il fungo.
Non lo chiedi.
Non lo meriti.
Ma compare.
È grosso. Marrone. Ride senza bocca.
Lo tocchi. Ti tocchi.
Cresci.
La pelle si tende.
Rotti i blocchi.
Ti senti Dio.
Ma solo finché qualcuno ti sfiora.
Perdi tutto.
Torni piccolo.
Non muori.
Regredisci.
È una punizione molecolare.
Un reset ormonale.
Poi arriva il fiore.
Ti infiamma.
Cambi colore.
Lanci palle.
Il mondo brucia.
Ti senti potente.
Ma non sei più tu.
Hai un altro metabolismo.
Un’altra velocità.
L’euforia dura finché non sbagli un salto.
Poi torni piccolo.
Di nuovo.
Ancora.
Sempre.
Poi la stella.
La stella è Dio.
Non dura.
Ma mentre dura, sei immortale.
Corri, uccidi, tocchi tutto.
La musica accelera.
Il mondo scivola via come l’acqua dopo una pasticca.
Nessuno ti può fermare.
Nemmeno tu.
Poi finisce.
E sei nudo.
Di nuovo.
Piccolo.
Indifeso.
Come all’inizio.
Ma più stanco.
Il corpo in Super Mario Bros. è un’interfaccia.
Non un’identità.
È una tuta da lavoro.
Non ha sesso.
Ha stati.
Non ha volontà.
Ha effetti.
Mario grande non è migliore di Mario piccolo.
È solo più esposto.
Più vulnerabile.
Più infiammabile.
Il corpo è una funzione che si aggiorna.
Non si evolve: si adatta.
È una pila di possibilità con le gambe.
Un sistema endocrino disegnato da un designer Nintendo sotto acido.
Un avatar che cambia umore a seconda di quello che mangia.
Mangia un fungo: cresce.
Mangia un fiore: spara.
Mangia una stella: diventa Dio.
Poi torna tutto indietro.
Ciclo. Riciclo. Psicofisica dell’animazione.
Il corpo è instabile.
Come l’amore.
Come la RAM.

Matteo Bittanti ha da poco pubblicato La filosofia di Super Mario Bros. (Mimesis, pag.278, euro 18). Viaggio in quarant’anni di cultura visiva, mediale e ludica attraverso uno dei fenomeni videoludici più importanti del nostro tempo: Super Mario Bros. Articolandosi in tre sezioni – Gioco, Video, Arte – il volume esplora il game design come forma estetica, la gamification come dispositivo ideologico e l’ibridazione tra media, identità e memoria culturale. Ecco un estratto:
Un salto. Un suono metallico. La prima moneta raccolta. Così comincia Super Mario Bros.: con un gesto elementare che diventa cultura. Non è solo un videogioco. È un congegno simbolico che nel 1985 prende possesso del televisore, come in Poltergeist. Da quel momento la cultura scorre in orizzontale, come lo schermo: avanti, sempre avanti. Si cade, si ricomincia. Mario insegna una logica dell’azione che cambia riflessi, aspettative, desideri. Altro che passatempo: è un manuale operativo mascherato da intrattenimento.
In apertura una immagine di Brandon Romanchuk


